Il muro che apparentemente separa l’opinione ufficiale dei paesi occidentali – governi, agenzie culturali e mediatiche – dal sostegno ai palestinesi, in questo momento storico, è fatto di storie profondamente radicate; ma quando il potere parla sempre e solo al potere, cercando di monopolizzare il lessico politico e pretendendo di fornire una spiegazione onnicomprensiva, allora diventa imperativo rompere questa morsa.
Il muro è quello della Shoah e del giusto senso di colpa occidentale, che tuttavia blocca ogni discussione sulla formazione storica della questione ebraica e palestinese. Su questo giornale ho spesso insistito sulla costituzione coloniale delle nostre lingue, delle nostre politiche e persino della nostra capacità di comprendere.

E ho suggerito che ascoltare le voci di Aimé Césaire, Frantz Fanon e Edward Said, o di Assia Djebar, Sylvia Wynter e Denise Ferreira da Silva, o la molteplicità di voci indigene che arrivano dai quattro angoli del pianeta, non significa semplicemente registrare l’esistenza dell’altro, che peraltro rifiuta di sentirsi da noi autorizzato a parlare, ma implica anche riconoscere il loro diritto ai diritti, e la necessità di lavorare su questo presupposto. Insistere sul nostro accesso privilegiato alla verità e ai mezzi per comprenderla significa autorizzare implicitamente un regime politico e culturale di apartheid. È razzismo.

L’organizzazione industrializzata del genocidio che è avvenuta sul suolo europeo contro una parte etnicamente identificata della popolazione nativa, oltre a rivelarci la banale continuità della nostra istanza omicida – notoriamente evocata da Hannah Arendt, poi da Zygmunt Bauman e più recentemente messa in scena nello sconvolgente film di Jonathan Glazer La zona d’interesse – deve anche rimandarci alla profondità degli archivi, per confrontarci con le strategie attraverso le quali, nei secoli e in ogni angolo del mondo, l’Europa ha sistematicamente massacrato coloro che considerava inferiori, stabilendo qual era la misura della ‘civiltà’ e del ‘progresso’ occidentali al di sotto della quale le persone potevano essere legittimamente sfruttate fino alla morte, oppure abbandonate alla fine implicita nella capitalizzazione del controllo territoriale e dell’identità nazionale.

Questo non per relativizzare la Shoah, bensì – anzi – per insistere sul riflesso critico che da essa si propaga sugli abissi inquieti di storie più profonde e più lunghe. La possibilità che la Shoah si verificasse non è stata né frutto di un qualche spontaneismo della Storia, né conseguenza del disfacimento della cultura tedesca: covava da secoli nell’antisemitismo europeo, era stata seminata dal fondamentalismo cristiano, e poi ‘secolarizzata’ e resa moderna nel corso del XIX secolo dal nazionalismo, dalla versione più scientifica del razzismo e dall’imperialismo; che a loro volta, e non così paradossalmente come potrebbe sembrare, hanno fornito strumenti e linguaggio al progetto coloniale del sionismo.

È una storia oscura, intricata e profondamente europea, eppure una ennesima impennata colonialista ha fatto sì che siano gli arabi, e i palestinesi in particolare, a convivere con le sue conseguenze omicide.
È a questo punto che si rende necessario rivedere il senso di colpa occidentale per l’Olocausto, come del resto hanno già cominciato a fare, da decenni, alcuni storici e pensatori critici, ebrei e non, sulla base di una documentazione analitica della Storia ormai facilmente reperibile.
A conferma di quanto sia stato centrale nella formazione del pensiero occidentale il contributo di certa critica ebraica, vorrei ricordare l’insistenzadi Sigmund Freud su quanto di rimosso c’è nel sottrarsi alla possibilità di usare proprio la Shoah (e Israele come sua conseguenza) per registrare la dominante coloniale del presente.

Se il nostro narcisismo ci rende disponibili esclusivamente a segnalare la perdita di milioni di persone uccise – sia nei campi di sterminio europei sia nei genocidi coloniali – ratificandone il lutto ma non elaborandolo, resteremo ancorati alla nostra malinconia e nient’altro.
La necessità di insistere, invece, su nessi storici apparentemente innominabili nel discorso comune, allo scopo di non farci inghiottire nel rimosso di un passato che si vuole svuotato di ogni significato, se non quello ratificato dalla nostra sovranità sul presente (e sul futuro), suggerisce che il senso di colpa può essere un punto di partenza, non di arrivo.

Assumersi questo onere critico e politico comporterà, allora, il fatto di restituire all’Occidente la responsabilità diretta del genocidio in corso a Gaza e del regno del terrore in Cisgiordania. Altrimenti, difendere Israele si risolverà nel trovare una nuova legittimazione al meccanismo stesso – la costituzione coloniale della modernità occidentale – che ha reso possibile l’Olocausto.