Il salario minimo solo se europeo
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Il salario minimo solo se europeo

Diritti Non aspettiamoci nulla da questo Governo a fine corsa e dai partiti. Senza una nuova stagione di conflitto sociale su obbiettivi precisi e unificanti le tutele non cresceranno

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 giugno 2022

La drastica perdita di potere di acquisto di salari e stipendi a seguito dell’aumento repentino dei prezzi dei beni e servizi ha imposto alla politica nazionale il tema dei bassi salari e della loro stagnazione trentennale.

L’INTRODUZIONE di un salario minimo legale per contrastare il fenomeno della povertà lavorativa, dopo anni di rimozione è diventato finalmente oggetto di un dibattito politico, anche accesso, nel quale se si esclude la posizione delle destre – sostanzialmente contraria e che si limita a chiedere il taglio del cuneo fiscale – si confrontano due proposte: quella di chi sostiene la necessità dell’introduzione di un minimo legale e quella di chi ritiene che sia sufficiente dare validità erga omnes ai contratti di riferimento di ogni settore siglati da Cgil, Cisl e Uil.

In questo dibattito si è inserita la notizia dell’accordo tra Parlamento e Consiglio europeo sulla proposta di Direttiva per «un equo salario minimo» formulata dalla Commissione a ottobre 2020: fatto politico raccontato con titoli roboanti dalle testate giornalistiche che ha fatto brindare alcuni all’imposizione di un obbligo europeo all’introduzione di un salario minimo anche in Italia.

UN DIBATTITO FUORVIANTE e propagandistico: basterebbe leggere i testi ufficiali infatti per capire che la montagna ha partorito un topolino. E non potrebbe essere altrimenti perché in assenza di una mobilitazione di lavoratori e lavoratrici su vasta scala l’asticella dei diritti non si alza, la storia l’ha ampiamente dimostrato.

La proposta di direttiva non introduce un salario minimo uguale per tutti i paesi della Ue, non mira nemmeno ad avvicinare i livelli salariali tra i paesi e non impone a quelli che oggi non hanno un salario minimo per legge (Italia, Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia) un obbligo di introdurre questa misura. La Commissione è stata chiara in questo senso: le politiche per il lavoro e l’occupazione sono e restano di competenza degli Stati membri.

La proposta di Direttiva cerca semplicemente di armonizzare i criteri di definizione dei salari minimi – per renderli genericamente «adeguati» tenendo conto al contempo delle condizioni socioeconomiche come pure delle differenze regionali e settoriali del loro adeguamento nel tempo nonché le procedure di aumento. Inoltre si pone l’obbiettivo di aumentare i tassi di copertura della contrattazione collettiva imponendo in particolare agli stati in cui questa non copre almeno l’80% degli occupati la predisposizioni di piani d’azione per promuoverla.

LE RICADUTE NEI SINGOLI STATI, in assenza di conflitto sociale, saranno quindi minime, se non nulle. All’interno della Ue continueranno ad esistere quelle «gabbie salariali» che sono costitutive del processo di integrazione economica europea. E in Italia tutto dipenderà dalle dinamiche parlamentari perché il tasso di copertura della contrattazione collettiva supera già la soglia minima prevista dalla proposta di direttiva. Peccato che la contrattazione collettiva in Italia, in particolare dalla stagione della «politica dei redditi» del ‘92-’93, abbia condannato milioni di lavoratori e lavoratrici (parliamo di circa 5 milioni) sotto la soglia dei 9 euro lordi l’ora. E non parliamo di contratti pirata: certo questi esistono, son tanti, ma il loro tasso di copertura è molto basso.

Il vero problema sono i contratti nazionali firmati dai sindacati confederali, pensiamo solo al contratto delle pulizie/multiservizi o dei servizi fiduciari che vengono applicati a centinaia di migliaia di rapporti di lavoro e che in quanto sottoscritti da organizzazioni maggiormente rappresentative non si riesce a disapplicare ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione. Un problema che la proposta impropriamente definita di «salario minimo» sostenuta dal ministro Orlando e imposta ai partiti di centro-sinistra da Cgil-Cisl-Uil evidentemente non risolve.

ANCHE LA PROPOSTA della ex ministra del Lavoro Catalfo, tuttavia desta preoccupazioni. Se da un lato ha indubbiamente il pregio di introdurre il principio di un salario minimo legale – al netto dell’importo orario fissato (che da 9 euro sembrerebbe essere passato ad 8,5 euro), dall’altro la stretta sulla rappresentanza nella stipula dei contratti nazionali, il riconoscimento della validità erga omnes degli stessi e il riferimento all’accordo sulla rappresentanza del 2014, ci appaiono come un ulteriore restringimento della democrazia sindacale finalizzato per sostenere o comunque accontentare il sindacalismo confederale in forte crisi di legittimità e rappresentanza in moltissimi settori, a partire da quello della logistica e dei trasporti.

NON ASPETTIAMOCI NULLA dal governo e dai partiti, in particolare da questo parlamento a fine corsa e tenuto in vita dalla paura di andare alle elezioni. In assenza di una nuova stagione di conflitto sociale su obbiettivi precisi e unificanti salari e tutele non cresceranno. Per questo riteniamo necessario ed urgente lavorare perché sia dia una grossa mobilitazione nazionale ed europea che, a partire dai luoghi di lavoro chieda: l’introduzione di un salario minimo legale di almeno 10 euro; una legge sulla rappresentanza e la democrazia sindacale che garantisca diritti sindacali e diritto alla contrattazione a tutte quelle organizzazioni che in azienda, in un territorio od in un settore rappresentano un numero significativo di lavoratori; l’estensione e l’aumento del reddito di cittadinanza e in generale l’adeguato finanziamento di un sistema di welfare capace di tenere tutte le persone, a partire dallo status occupazionale, fuori dalla povertà.

MA È ALTRETTANTO EVIDENTE la necessità di impostare una battaglia a livello europeo in quanto la riproduzione delle «gabbie salariali» su questo piano (in particolare l’Europa allargata ai paesi dell’est) produrrà sempre un processo di delocalizzazione o di ricatto di delocalizzazione (che significa richiesta di riduzione delle tutele e contenimento della crescita dei salari) verso i paesi, di recente ingresso nella Ue, dove il costo del lavoro risulta drasticamente inferiore ai paesi fondatori dello spazio economico europeo o del nord Europa. Per questi motivi riteniamo fondamentale rafforzare la «Rete internazionale dei sindacati di lotta e solidarietà» per arrivare a costruire campagne comuni, in primis quella per un salario minimo europeo.

*Adl Cobas

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