C’era una volta la dazione ambientale. L’espressione se l’era inventata Antonio Di Pietro ai tempi di Mani Pulite, intendendo «una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto». Parlava della città di Milano. E sono passati trent’anni. Il tema della corruzione, poi, se non è mai scomparso del tutto dalle cronache giudiziarie e politiche, negli ultimi mesi è di certo riemerso in maniera prepotente a causa di una serie di inchieste giudiziarie ravvicinate tra di loro. Più che giustizia a orologeria, un fuoco di fila.

A BARI era il 26 febbraio quando la Dda ha ordinato l’arresto di 130 persone (tra cui una consigliera comunale e un ex consigliere regionale) per una complicata storia di intrecci tra politica, mondo degli affari e criminalità a sfondo elettorale. Da lì la questione è salita di tono, con altri indagati eccellenti e il Viminale che ha disposto addirittura l’invio di una commissione d’accesso in Comune per valutare l’ipotesi di scioglimento per infiltrazioni mafiose. Poi è stato il turno di Palermo, con l’arresto di un ex consigliere comunale. Pochi giorni dopo un’inchiesta simile è esplosa a Catania, con 11 arresti per voto di scambio e corruzione. Ancora, sempre ad aprile, a Torino è stato indagato Salvatore Gallo, un passato socialista e una lunga storia da «signore delle tessere» vicino al Pd. E adesso Genova (con spin off non meno preoccupante a La Spezia), con il governatore Giovanni Toti che è finito ai domiciliari. E questo solo per quanto riguarda la politica, perché poi le indagini vedono il coinvolgimento anche di funzionari pubblici, manager, faccendieri che si muovono tra una società partecipata e l’altra. Da notare che, almeno fino a questo momento, le indagini riguardano per lo più le amministrazioni locali, o al più quelle regionali, cioè quegli enti dove le elezioni si giocano molto (quasi completamente) sulle preferenze personali. E come si prendono le preferenze? Con l’eloquio, l’abilità e l’impegno nei confronti della propria comunità, certo, ma a leggere le inchieste anche tessendo rapporti non sempre limpidi.

NELL’INCHIESTA di Genova – 650 e più pagine di ordinanza scritte in cinque mesi dal gip Paola Faggiani, a suggello di un’indagine durata tre anni – si evoca anche un altro spettro, quello di Cosa nostra. Gli investigatori sostengono che «il modello associativo» presente a Genova è «atipico» perché «non è più caratterizzato da comportamenti violenti ed esplicitamente intimidatori, ma è contraddistinto da atteggiamenti tendenzialmente silenti e di basso profilo, alimentati da una presenza stabilmente radicata sul territorio e da ambizioni e programmi finalizzati ad allacciare rapporti privilegiati con esponenti del mondo economico e politico-istituzionale». È in realtà una tesi che negli ambienti dell’antimafia si sostiene da anni: Cosa nostra si è inabissata e ora vive per lo più nel mondo degli affari e degli appalti. Secondo i pm in Liguria opera (da ormai un quarantennio) il clan Cammarata di Riesi, nel Nisseno. Per corruzione elettorale sono quindi stati arrestati tre incensurati. Venanzio Maurici, 65 anni, ex sindacalista dello Spi Cgil, ritenuto referente dei Cammarata. E poi i gemelli Italo e Arturo Testa, entrambi residenti in provincia di Bergamo: sindacalista della Cisl in una fabbrica Marcegaglia il primo, imprenditore edile il secondo. Per gli investigatori di La Spezia, che poi hanno trasmesso i risultati del loro lavoro alla procura di Genova, i tre avrebbero fatto avere 400 preferenze a Stefano Anzalone (indagato), esponente del gruppo misto ma eletto con la lista personale di Toti. Chiedevano favori – dall’assunzione di un parente all’assegnazione di una casa popolare – e in cambio offrivano voti. Una storia nella storia. Anche se, a ben guardare, tutte le vicende di questo genere sembrano uguali.