Il rischio debito è sempre dietro l’angolo
Nuova finanza pubblica La rubrica settimanale a cura di Nuova finanza pubblica
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Il debito pubblico italiano preoccupa nuovamente, in coincidenza con il rialzo dello spread che in queste ultime settimane è tornato sui livelli del 2014. Come sempre più spesso accade, il problema del debito torna sotto i riflettori come effetto dei movimenti nei mercati finanziari e non per un’analisi dei fondamentali economici di un paese.
Sono i mercati che fanno discutere dell’insostenibilità del debito, non l’attuale andamento ipertrofico dell’economia che non favorisce certo il riassorbimento dei debiti sovrani.
Il ministro del Tesoro Padoan parla di «stabilizzazione» del debito, ma è un trucco politico-contabile. Si potrebbe parlare di stabilizzazione se le finanze pubbliche non godessero di quella droga monetaria, fornita dalla Bce con i suoi vari programmi di finanziamento e culminata oltre un anno fa con il programma di acquisto di titoli pubblici chiamato Quantitative easing, la quale ha consentito di ridurre i costi sul servizio del debito come non accadeva da molto tempo.
Nel 2016 il pagamento degli interessi sul debito è sceso a 66,5 miliardi, mentre nel 2012 era di 83,5, con un risparmio cumulato nel quadriennio di 47 miliardi. E va tenuto conto che un debito sovrano ha una composizione con scadenze temporali piuttosto dilatate e dunque l’incidenza di questi programmi ha potuto dispiegarsi solo su una quantità modesta di titoli in scadenza.
Si potrebbe parlare di stabilizzazione, soprattutto, se vi fosse una crescita del Pil, che secondo la vulgata mainstream rappresenta l’unica strada per ridurre il debito, da cui la centralità del rapporto Debito su Pil. Invece anche nel 2016 il debito ha continuato a crescere.
La Banca d’Italia ha pubblicato le stime per il 2016 e, rispetto all’anno precedente, il debito risulta aumentato di 45 miliardi passando da 2.172,7 a 2.217,7 miliardi di euro. L’Istat ha appena confermato un aumento di “soli” 40 miliardi e soprattutto che il Pil nel 2016 è cresciuto dello 0,9%, il rapporto Debito/Pil raggiunge così la percentuale record di 132,6%, con un incremento di sei punti decimali rispetto al 2015.
Lo scorso anno calcoli prudenti di Carlo Cottarelli individuavano come possibile una crescita annua del 3% per iniziare a ridurre il debito pubblico. Quella realizzata è stata meno di un terzo di quella auspicata e il risultato è un ulteriore crescita del debito in termini assoluti e relativi al prodotto interno. Ora il Tesoro prevede che dal punto di vista della gestione del debito pubblico «nel 2017 le esigenze di finanziamento saranno superiori a quelle del 2016», cioè si dovranno rinnovare una quantità maggiore di titoli pubblici, lasciando intendere che all’aumentare dello spread aumenterà il costo del nostro debito.
Situazione nuovamente in salita. Il problema torna a essere europeo, con una crescita dello spread tra i bund tedeschi e quelli dei paesi periferici, compresa la Francia.
Logiche valutarie, in conseguenza della fragilità economica continentale di cui quella politica è solo un riflesso, spingono gli investitori internazionali verso titoli pubblici di paesi considerati solidi, come la Germania oppure la Svizzera e la Svezia, nonostante la resa sia negativa.
L’euro balla e i debiti tornano un pericolo. In Italia si ricomincia a parlare di «un patto per il debito», magari per attrezzarci alla fine del Qe. Il Sole 24 Ore afferma: «Come si riduce il rischio? Anzitutto riconoscendolo» e «serve un impegno corale delle forze politiche per realizzare un percorso di lenta ma costante riduzione del debito».
Ma in questi anni le massicce dosi di austerità somministrate in continuità l’una con l’altra, a cosa sono servite?
Sembriamo tornati al punto di partenza: il paziente è sempre moribondo, ma la cura resta la medesima. In considerazione dell’insostenibilità degli attuali debiti sovrani iniziamo a parlare di indagini sul debito e di una sua ristrutturazione, questo potrebbe essere il nuovo patto da siglare.
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