Derna, per esempio. L’inondazione dello scorso settembre sarebbe forse stata affrontata meglio se la guerra della Nato nel 2011 non avesse disgregato la Libia. Così argomenta Nnimmo Bassey – attivista nigeriano e direttore di Health of Mother Earth Foundation – nella prefazione al rapporto Climate Crossfire, curato da Transnational Institute (Tni), Stop Wapenhandel e Tipping Point North South. Il caos post-guerra aveva infatti impedito la manutenzione delle dighe, crollate davanti al ciclone Daniel, e il funzionamento di sistemi di allerta.

LA TRAGEDIA DI DERNA è un esempio di come l’adattamento climatico venga pregiudicato dai conflitti. I quali, peraltro, aumentano le emissioni di gas climalteranti, sia durante, con l’uso di combustibili fossili nelle operazioni, che dopo, per la successiva (eventuale) ricostruzione.

IL SETTORE MILITARE MONDIALE è nemico del clima anche a prescindere dalle guerre vere e proprie. Sarebbe responsabile del 5,5% delle emissioni di gas serra totali (in una forchetta fra il 3,3% e il 7%), secondo Estimating the Military’s Global Greenhouse Gas Emissions, pubblicato da due organizzazioni indipendenti, Scientists for Global Responsibility (Sgr) e Conflict and Environment Observatory (Ceobs). La stima non comprende l’impatto bellico e si riferisce a tre ambiti: catena di approvvigionamento (industria), strutture (comprese le basi all’estero), mobilità di cielo, terra e acqua. L’ampio margine, viene detto, «si spiega con l’opacità del settore», perché i paesi non sono obbligati a includere le emissioni militari nei loro obiettivi climatici – è l’abnorme frutto di un’antica battaglia degli Usa al tempo del Protocollo di Kyoto (1997) – e chi lo fa, secondo l’inchiesta Military Emissions Gap dello stesso Ceobs, riferisce dati parziali, contraddittori, incompleti, incorporati in altre voci.

IL GREENWASHING riguarda anche il complesso militare, alla ricerca di escamotage perché nessuno dei membri della Nato, e nemmeno Russia e Cina, si è impegnato a ridurre le emissioni (salvo quelle di alcune funzioni minori). Del resto, vista la dipendenza del settore dai combustibili fossili, i tagli si possono fare solo riducendo la taglia del settore. Come sottolineava nel 2022 sempre il Tni nel rapporto Climate Collateral, «i carburanti alternativi sono troppo costosi, limitati quanto a disponibilità e insostenibili visto che richiedono un massiccio ricorso al cambiamento nell’uso dei suoli»; vale altrettanto per «tecnologie come la cattura del carbonio».

CLIMATE CROSSFIRE si focalizza sull’obiettivo della Nato di destinare alle spese militari almeno il 2% del Prodotto interno lordo (Pil) di ogni Stato membro. Si arriverebbe a una spesa totale su otto anni di 11.800 miliardi di dollari entro il 2028, ovvero 257 miliardi di dollari in più rispetto allo scenario del 2021 (1160 miliardi di dollari, saliti a 1260 nel 2023). Nello scenario delle spese militari al 2% del Pil in tutti i 31 paesi Nato fra il 2021 e il 2028, l’impronta carbonica collettiva dei loro eserciti ammonterebbe a due miliardi di tonnellate di CO2 equivalente (467 milioni di tonnellate in più).

NON C’È SOLO LA NATO. Nel 2022 la spesa militare mondiale annua ha raggiunto 2240 miliardi di dollari. Gli Stati membri della Nato, poi, esportano armi a 30 dei 40 paesi più vulnerabili sul fronte climatico. L’agenda «pesante e del tutto irresponsabile di una corsa al riarmo ad alta intensità di carbonio», sintetizza il gruppo Global Women for Peace United Against Nato, si confronta con una carenza di fondi per la resilienza climatica, precisa Bassey. Dall’Accordo di Parigi le spese militari sono aumentate di 200 miliardi di dollari all’anno, ma il braccino è corto quando si tratta di rispettare gli impegni di finanza climatica. Secondo il rapporto di cui sopra, un anno di spese militari nella Nato (cifra del 2023) equivale a 4 anni di costi per la mitigazione e l’adattamento nei paesi africani, a un anno della finanza climatica totale estera o a tre anni di costi per il loro adattamento climatico nei paesi a basso e medio reddito.

LE SPESE MILITARI E I SUSSIDI per i combustibili fossili fanno un totale che, se dirottato e con l’aggiunta di alcune imposte ambientali, sarebbe «più che sufficiente a finanziare la mitigazione, l’adattamento e il fondo perdite e danni», affermava nel 2022 il rapporto Climate Collateral sul rapporto fra spese militari globali ed emergenze di origine climatica.

IN NOME DELLA «PACE VERDE», anche Greenpeace Italia chiede al governo italiano di rinunciare all’obiettivo del 2% del Pil, di tassare gli extra profitti delle aziende della difesa e di usare quei fondi per la lotta alla povertà e alla crisi climatica. «La sicurezza dell’Europa si garantisce meglio con gli accordi, il negoziato, la prevenzione, il controllo degli armamenti, il disarmo». Invece, «più armi e più fonti fossili porteranno solo più conflitti». E a meno resilienza: nel 2022 l’Italia ha destinato 26 miliardi di euro alle spese militari e solo 320 milioni ai comuni per la messa in sicurezza del territorio. Diverse inchieste di Greenpeace rivelano inoltre che le missioni militari italiane all’estero sono spesso operazioni a tutela dell’approvvigionamento in combustibili fossili. Una militarizzazione delle fonti fossili cresciuta con la guerra in Ucraina e con il sabotaggio del gasdotto nord Stream.

ARMING EUROPE, un rapporto pubblicato dai tre uffici nazionali di Greenpeace in Germania, Italia e Spagna, rivela che le spese militari sono anche un cattivo affare per l’economia: gli investimenti su ambiente, istruzione e sanità possono avere un impatto sull’occupazione e sulla produzione interna ben maggiore. Nell’ultimo decennio la spesa per le armi nei paesi europei Nato è cresciuta 14 volte più del loro Pil complessivo; in Italia fra il 2013 e il 2023 è aumentata del 30% (arrivando a 436 euro annui pro capite), mentre altri capitoli sono cresciuti molto meno: la sanità dell’11%, l’istruzione del 3% e la protezione ambientale del 6%.

LESS WAR, LESS WARMING è il dossier che il think tank britannico Common Wealth dedica a Stati Uniti e Regno unito, sulla base del ruolo storico dei loro eserciti nello sviluppo dell’economia dei combustibili fossili. Ecco le proposte per la redenzione: ridurre le operazioni e l’acquisizione di hardware; chiudere le basi militari; investire nella riconversione per i lavoratori dell’industria armigera e per gli stessi militari; quantificare e pubblicare i contributi alle emissioni di gas serra. E creare un super fondo globale per veri progetti nelle mani delle comunità contaminate.