A fine agosto The Guardian ha pubblicato un articolo sull’imbroglio dei prezzi nel settore energetico. L’articolo definisce il mercato del gas e del petrolio un racket, paradiso di profittatori. L’eccesso di profitto negli ultimi 50 anni ammonta, secondo dati rivelati recentemente, a 3 miliardi di dollari ogni giorno. Un barile di petrolio costa all’Arabia Saudita pochi dollari per poi essere rivenduto a 100.

Se l’Europa adottasse una politica energetica comune, e assumesse una configurazione politica stabile e coerente, l’illegalità dei profitti potrebbe diventare oggetto di misure repressive e anche di richieste statali e private di risarcimento.

Molti dicono che il problema potrebbe risolversi da solo: l’avidità dei produttori e dei mercanti porterà prima o poi alla loro rovina, incentivando la produzione di forme di energia alternativa.

È un ragionamento teorico che andrebbe bene se il nostro rapporto con la realtà fosse sensato. Esso non tiene conto del funzionamento concreto del nostro mondo che è diventato un guazzabuglio di azioni scoordinate, connesse tra di loro solo da ragioni opportunistiche che seguono interessi sempre più a breve termine e sempre più rapaci.

Se la politica, a partire dall’Europa (l’idea della Polis democratica è nata qui) non decide di svolgere la sua vera funzione – far rispettare la giustizia e l’interesse comune contro le vocazioni predatrici – e continua a retrocedere di fronte agli oligarchi e ai dittatori, la vita di tutti noi diventerà un azzardo. I pirati di oggi sono bravi ad adattarsi alle circostanze avverse e a volgerle a loro favore.

In questi giorni una donna di cinquant’anni con problemi di salute, Noura al-Qahtani madre di cinque figlie (una delle quali disabile) è stata condannata in Arabia Saudita a 45 anni di prigione. La donna aveva usato i social per difendere i dissidenti.

Un mese fa Salma al-Shehab, studentessa di PhD all’Università di Leeds e madre di due figli, ha avuto, tornata a casa per una vacanza, una condanna di 34 anni, perché seguiva e ripubblicava i commenti degli attivisti contro il regime Saudita, una dittatura feroce dove la vita delle persone e i loro diritti contano nulla.

È guidato da un uomo, accusato di assassinio con tanto di prove (Biden prima l’aveva pubblicamente ammonito, poi ha adottato il silenzio) che si è presentato al mondo come difensore delle donne. Grande corruttore, identico nella postura autocratica a Putin, conduce le sue guerre sia sul campo come in Yemen, un conflitto tanto crudele quanto dimenticato, sia in silenzio nel mondo della finanza, godendo in Occidente delle stesse complicità e e intrecci di interesse del suo omologo russo.

Ora uno è diventato nemico, l’altro (dopo esitazioni) è tornato amico. Gli scontri vanno e tornano, cambiano i fronti, ma ciò che governa tutto è la “realpolitik”: l’adattarsi alle circostanze per evitare il peggio, finendo risucchiati nell’inerzia psichica, in nome del realismo.

Così il peggio avanza silenziosamente nel mondo esterno e noi adattiamo ad esso il nostro mondo interno. Il «realismo» che domina il pianeta è distruttivo. Non prende le misure del mondo per abitarlo meglio, cerca di sottomettere il rapporto con esso ad azioni immediate, senza prospettiva lunga, dettate dall’ansia e dalla depressione. Non vede la realtà e non la capisce, la inventa. Così evita di fare i conti con i conflitti e con le loro cause, fino a quando, non essendo stato risolto nulla, la catastrofe annunciata travolgerà tutto.

Tra poco si vota, si voterà anche per le elezioni di midterm negli Stati Uniti, la Francia è «uscita» da elezioni molto difficili. Si decide se distruggere il campo della vita col rischio che non cresca più l’erba o mantenerlo in vita, costi quel che costi, in attesa di tempi migliori.

Chiunque può vedere che non viviamo in epoca di vacche grasse, ma distruggere i pascoli è un suicidio che possiamo e dobbiamo evitare. A volte dietro il suicidio opera il narcisismo dell’idea pura e assoluta.

Il paradiso può attendere, cerchiamo di salvare la nostra convivenza civile.