Paolo Grassi è un antropologo urbano, ricercatore all’Università di Milano Bicocca. Da poco è uscito un suo libro, pubblicato da FrancoAngeli, che s’intitola Barrio San Siro, interpretare la violenza a Milano. Un testo che raccoglie i risultati di cinque anni di ricerche entografiche nel quartiere e di vita vissuta insieme agli abitanti di San Siro.

La musica e i giovani che fanno musica a San Siro sono entrati nel tuo lavoro e nel tuo libro?

Sì è stato inevitabile. Ho visto come questa interessantissima scena musicale in qualche modo sta costruendo un quartiere nuovo e un rapporto nuovo con il resto della città. Questi ragazzi stanno restituendo un immaginario molto forte al quartiere in cui vivono. Ho cercato di guardare a questa loro relazione e a questo loro legame con il quartiere. È un immaginario potente e ora famoso a livello nazionale ed europeo. È sicuramente una rappresentazione ambigua quella che fanno, che fa leva sull’immaginario criminale del quartiere ma allo stesso tempo quelle canzoni ribaltano lo stigma che colpisce pesantemente il quartiere di San Siro e in generale le periferie di Milano. Questi ragazzi sono stati in grado di ribaltare questo stigma e renderlo motivo d’orgoglio e appartenenza al quartiere e costruire una nuova identità positiva.

Come ti sei relazionato col quartiere, che metodo di lavoro hai usato?

Ho utilizzato un approccio lento e nel libro sono finiti cinque anni di lavoro. L’ho fatto collaborando con gruppo di ricerca del Politecnico che si chiama Mapping San Siro. Con questo gruppo ho iniziato a stringere relazioni con gli abitanti che mi hanno fatto vedere il quartiere. Dalle loro storie quotidiane, attraverso le loro biografie, giorno dopo giorno ho sviluppato le mie riflessioni.

Il libro s’intitola Barrio San Siro. Perché Barrio?

Il titolo è un artificio retorico, prendo un termine che può essere stigmatizzante e che richiama ad altri quartieri e ad altri paesi. Barrio è un termine che ho trovato e ritrovato nel passato e nel presente del quartiere, una categoria che è stata utilizzata da alcuni residenti per definire quel territorio. La cosa curiosa è che Barrio si ricollega alle miei esperienze di ricerca passate in Repubblica Dominicana e in Guatemala, era quindi un titolo che si collegava bene anche al mio percorso professionale.

Il sottotitolo è «interpretare la violenza a Milano». Qual è la violenza di cui parli?

Parlo soprattutto di violenza strutturale, legata alle condizioni storiche, politiche ed economiche del quartiere. Una violenza che si riversa in alcuni spazi e sulla vita di alcune persone, che diventano le più marginalizzate. Parlo anche della violenza sociale e quotidiana, quella che poi finisce sulle pagine dei giornali, ma cerco di spiegare che questo secondo tipo di violenza per essere compresa deve essere inserita in quadri interpretativi più ampi. È necessario tenere conto dei fattori strutturali che permettono di dare senso a quello che succede nella quotidianità.

San Siro è il quartiere degli estremi che convivono: povero ma circondato da quartieri ricchi, con la più alta densità di giovani minorenni ma anche di anziani fragili, dove ci sono scuole frequentate solo da figli di stranieri e scuole frequentate solo da italiani bianchi. Di cosa ha bisogno questo quartiere per rendere la vita migliore a chi lo abita?

È il tema vero del quartiere, il più complesso. Sul cosa fare tutti si interrogano, associazioni, volontari, politica. Molti fanno proposte, ma è molto complesso agire nell’incrocio di interessi divergenti degli attori istituzionali e sociali in campo. Questo quartiere ha bisogno di interventi integrati che vadano ad incidere su più questioni in maniera simultanea. Gli interventi sulla casa devono essere accompagnati a quelli sulla vivibilità degli spazi comuni, ad esempio. Per tornare alla questione giovani d’inizio intervista, in questo quartiere non è una questione secondaria, è un settore importante perché il quartiere è ricco di giovani. Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione istituzionale, ma deve essere considerato davvero un punto di partenza dal quale avviare cambiamenti. E sono sicuro sarebbe percepito come un segnale immediato d’attenzione che oggi manca