«Fuck all their borders and fuck all their wars, neoliberals white saviors, Murdoch and Fox News, fuck the Pittsburghs police and the president too...», inizia melodico, malgrado i sentiti improperi, il nuovo disco degli Anti-Flag, la band punk di Pittsburgh che non hai mai rinunciato a proporre il genere più ribelle del rock come motore di dissenso e rivoluzione.

The Lies They Tell Our Children è un concept-album straordinario sugli orrori del presente che risulta il più ispirato della loro notevole carriera di antagonisti, un’opera quantomai necessaria oggi, la colonna sonora ideale per un mondo dove «non significhiamo più niente» se non come (s)oggetti da vendere, corpi e dati da acquistare.

E PER CANTARE la loro rabbia in questo travolgente quanto potente tredicesimo lavoro, gli Anti-Flag si avvalgono della collaborazione di innumerevoli stelle del punk che è sempre restato politico e magnificamente marginale ma di successo (non certamente «mainstream»), come Stacy Dee delle Bad Cop/Bad Cop, Brian Baker dei Bad Religion, Tim McLirath dei Rise Against, Ashrita Kumar delle Pinkshift…

Così ecco, in poco più di mezz’ora, undici canzoni che catalogano con precisione, incuranti di ogni offesa al potere e allo status quo, tutte le storture definitive e quasi irrimediabili che affliggono il pianeta e i popoli.

«Ogni centesimo risparmiato per il fondo di guerra, un’altra pillola per soffocarci», canta il ritornello tra cori e riff innodici in Modern Meta Medicine, mentre il ritmo comincia ad accelerare in Laugh, Cry, Smile, Die («le menzogne che raccontano ai nostri figli plasmano tutto ciò che conosciamo, trasformando i fatti in finzione in diretta») e nell’innodica, ma disperata nell’impotenza del suo antimilitarismo, The Fight of our Lives.

Undici canzoni che catalogano le storture che affliggono il pianeta

LA RABBIA scatenata di Iperialism, che tratta dell’atteggiamento americano nel mondo mai sopito, subdolo e mascherato, fino ad arrivare alla situazione palestinese; la marcia soldatesca dalla marzialità tuttavia disinnescata in Victory or Death; la forza quasi “metal” di Hazardous ( «l’ingiustizia è ovunque ci sia un’arma, l’ingiustizia è in qualsiasi cosa compriamo»); lo sfruttamento dei lavoratori nella ricorrente narrazione di un lavoro che dovrebbe nobilitare ma schiavizza mentre al contempo si fa leva industriale della distruzione del pianeta in Work & Struggle; l’odio per un sistema mellifluo e meschino, dissimulato, nell’esaltante Nvrevr. Conclude la definitiva, il manifesto teorico dell’album, It’s Only in my Head, «l’edificio creato dalla loro avidità non è la mia maledetta casa».

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CAPOLAVORO di un punk senza confini, perché li abomina e trascende in un condensato di rabbia popolare che diviene universale. Canzoni per un mondo che celebra la fine sempre più possibile in una superficie mediatica spettacolare e ingannevole e che assumono un valore propositivo fondamentale nell’appiattimento e repressione a priori di un’idea rivoluzionaria, salvifica e anticapitalista.