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Il presidente che governa a colpi di decreto. E se ne vanta pure

Il presidente che governa a colpi di decreto. E se ne vanta pure

I primi 100 giorni di Trump I successi e i fallimenti dei primi cento giorni dall’insediamento di un nuovo presidente degli Stati uniti sono tradizionalmente utilizzati come parametro per valutare le capacità politiche della sua amministrazione. […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 29 aprile 2017

I successi e i fallimenti dei primi cento giorni dall’insediamento di un nuovo presidente degli Stati uniti sono tradizionalmente utilizzati come parametro per valutare le capacità politiche della sua amministrazione. Per dimostrare l’attivismo e l’efficienza di Donald Trump il sito della Casa Bianca gli ha attribuito la promulgazione di 30 ordini esecutivi dall’entrata in carica, più di qualsiasi altro presidente del secondo dopoguerra e soprattutto un numero di gran lunga maggiore ai 9 decreti firmati da Franklin D. Roosevelt nelle 14 settimane iniziali del mandato.

Proprio a Roosevelt, infatti, risale la consuetudine di impiegare i risultati dei primi cento giorni quale criterio per giudicare le doti di statista dell’inquilino della Casa Bianca. In quel breve lasso di tempo del 1933 Roosevelt inondò Camera e Senato di proposte che, tradotte rapidamente in leggi, gettarono le basi del New Deal.

Come tutte le notizie provenienti dall’entourage di un personaggio che ha dato un contributo significativo alla coniazione del neologismo post-verità, le cifre fornite dall’amministrazione Trump sugli ordini esecutivi non sono del tutto attendibili. Al di là dell’alterazione dei dati, però, quello che colpisce è la constatazione che Trump trae motivo di vanto e di orgoglio dall’aver fatto ricorso alla legiferazione per decreto anziché dall’essersi conformato alla prassi, seguita pure da Roosevelt nel 1933, secondo cui i provvedimenti sono adottati in forma di leggi varate dal Congresso, sia pure su indicazione della Casa Bianca.

In momenti normali avvalersi degli ordini esecutivi in modo massiccio sarebbe considerato un’ammissione implicita di debolezza politica da parte del presidente, in quanto attesterebbe la difficoltà del capo dell’esecutivo nel convincere il Congresso a realizzare l’agenda legislativa della Casa Bianca. Così è stato, per esempio, nell’ultimo biennio dell’amministrazione di Barack Obama, quando il presidente democratico si è trovato a scontrarsi con l’opposizione di un Congresso controllato dal partito repubblicano in entrambi i rami. Ma i tempi di Trump sono tempi anomali.

Fino dal discorso di insediamento Trump ha accusato il ceto dirigente di Washington di aver tradito la fiducia dei cittadini e si è solennemente impegnato a restituire il potere al popolo, mettendo fine a un presunto esproprio della sovranità da parte dei politici di professione, che siedono soprattutto in Congresso.

In questa prospettiva populista, Trump ha sempre ostentato un rapporto diretto con l’elettorato e ha preteso di essere l’unico vero interprete ed esecutore della volontà degli americani. Si è trattato ovviamente di millanterie: Trump non ha ottenuto la maggioranza del voto popolare nelle elezioni del 2016 e il suo consenso è in caduta libera. Secondo il sondaggio più recente della Gallup solo il 40% degli statunitensi approva il suo operato e appena il 36% appoggia un progetto qualificante della presidenza quale la costruzione del muro al confine con il Messico.

Trump, che in teoria gode di una maggioranza sia al Senato sia alla Camera, in realtà ha problemi con il suo stesso partito al Congresso. In marzo, ad esempio, è stato costretto a ritirare il disegno di legge per la riforma sanitaria che avrebbe dovuto sostituire l’Obamacare perché non disponeva dei voti per farlo approvare. L’impiego degli ordini esecutivi è stato, quindi, una scelta necessaria. L’uso di questo strumento per aggirare il Congresso costituisce, però, anche un modo eclatante per dimostrare all’opinione pubblica che il presidente segue una strategia coerente con il suo proposito di difesa della sovranità popolare dalle supposte prevaricazioni compiute dai legislatori. In questo elemento è insito lo sviluppo più pericoloso della svolta che Trump ha cercato di imprimere alla politica statunitense nei primi cento giorni alla Casa Bianca.

Il suo fine ultimo, infatti, sembra quello di alterare l’equilibrio costituzionale tra il potere legislativo e quello esecutivo a vantaggio di quest’ultimo, in forza della presunta identità tra l’agenda del presidente e la volontà popolare. Non a caso, Trump ha tacciato di essere antiamericani i giudici che hanno bloccato alcuni dei suoi decreti.

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