Politica

Il premier deciso a dimettersi. Ma il dilemma ora è il suo

Sergio Mattarella e Mario Draghi foto LaPresseSergio Mattarella e Mario Draghi – LaPresse

Dopo lo strappo il rischio di elezioni in autunno Il presidente Mattarella sta seguendo la situazione senza intervenire. Se la decisione del premier non sarà irrevocabile il Quirinale avrà ampi margini per intervenire

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 14 luglio 2022

«Il Paese è sull’orlo del baratro. Il M5S è l’unica forza che incalza il governo su questa emergenza. È responsabilità far finta di non vedere? Siamo disponibili a collaborare con il governo. Non a concedere una cambiale in bianco. Non possiamo che agire con coerenza o il Pese non capirebbe. Al Senato domani non parteciperemo al voto. Chi ci accusa di irresponsabilità deve guardare al suo cortile».

Dopo le 12 ore più surreali nella storia politica italiana, dopo ore di indecisioni, ripensamenti ed esitazioni, Giuseppe Conte ha scelto di andare avanti anche a costo di rischiare la crisi di governo.

«Il Paese è sull’orlo del baratro. Il M5S è l’unica forza che incalza il governo su questa emergenza. È responsabilità far finta di non vedere? Siamo disponibili a collaborare con il governo. Non a concedere una cambiale in bianco. Non possiamo che agire con coerenza o il Pese non capirebbe. Al Senato domani non parteciperemo al voto. Chi ci accusa di irresponsabilità deve guardare al suo cortile».Giuseppe Conte

I 5 Stelle oggi lasceranno l’aula senza votare la fiducia e la palla passerà a Draghi. Dovrà decidere se dar seguito alla minaccia di dimettersi, come annunciato martedì: non tornerà su quella decisione. Ma soprattutto dovrà scegliere se accompagnare alla parola dimissioni l’aggettivo determinante: «Irrevocabili».

Se ci sarà i giochi saranno chiusi, non ci saranno alternative alle elezioni in autunno, probabilmente a novembre. Se invece non ci sarà, Mattarella, che ieri ha seguito la situazione senza intervenire, avrà ampi margini d’azione. Potrà chiedere a Draghi di rivolgersi alle Camere non per verificare se ha ancora la fiducia del parlamento, quella già c’è, ma per chiarire se esistono le condizioni per andare avanti senza che le tensioni interne alla maggioranza paralizzino tutto.

Ieri di fronte a un dilemma lacerante si è trovato Giuseppe Conte. Oggi potrebbe essere il turno di Mario Draghi.

Non è bastata a convincere il capo dei 5S la telefonata con il presidente del consiglio nel primo pomeriggio, anche se alla vigilia l’ex premier sembrava invece più che disposto a farsi convincere. Al telefono l’avvocato ribadisce le richieste già messe nero su bianco nella famigerata lettera. Invoca segnali precisi.

Draghi si allarga solo sul reddito di cittadinanza, impegnandosi non solo a difenderlo ma anche a cancellare l’emendamento riduttivo approvato alla Camera e che oggi il Senato ratificherà. Assicura che il prossimo decreto Aiuti sarà massiccio, forse sino a uno stanziamento di 15 miliardi. Conferma gli impegni assunti martedì nell’incontro con i sindacati. Ma nulla di più: non una parola sul Superbonus o sulla sostanza degli interventi annunciati solo per titoli sul salario minimo o sul taglio del cuneo fiscale.

Conte riconosce la disponibilità del premier però «non ci si può accontentare degli impegni».

Pesano invece le posizioni degli altri partiti. Perché se i 5 Stelle sono ammutoliti tutti gli altri sono torrentizi e ogni dichiarazione produce effetti, sposta posizioni, induce ripensamenti.

Salvini, non si capisce se volontariamente o per errore, spinge in direzione dell’appeasement: «Se un partito di maggioranza non vota un decreto della maggioranza è fine, si va alle elezioni». La destra vuole le elezioni, sa che in queste condizioni quasi non ci sarebbe partita.

Ma l’affondo del leghista provoca un effetto opposto, terrorizza i pentastellati convincendoli che la via d’uscita sulla quale puntava Conte, defezione sul voto di fiducia ma senza uscire dal governo, è bloccata. Difficile dire se quello del capo leghista sia un errore clamoroso oppure una scelta astuta. Politicamente la Lega ha tutto l’interesse nella crisi ma il partito del nord, che guarda all’economia e ai problemi concreti della sua base, è di avviso opposto. Si rende conto del rischio enorme che provocherebbe una crisi adesso.

Silvio Berlusconi è più sottile, come del resto Matteo Renzi. «Il governo può andare avanti anche senza il Movimento 5 Stelle». Draghi avrebbe la maggioranza anche senza i contiani, che peraltro non sfiducerebbero il governo. Nessun ostacolo per il Draghi bis, dunque. Tranne l’indisponibilità dello stesso Draghi, come il Cavaliere sa benissimo. Forza Italia punta alle elezioni subito, è stata la più solerte, sin dal voto della Camera, nel drammatizzare quanto più possibile la situazione. Ma Berlusconi, a differenza di Salvini, calibra le parole per evitare che risultino dal suo punto di vista controproducenti.

Per i 5S le pressioni insieme più significative e più irritanti sono quelle del Pd. Enrico Letta va giù esplicito. Non «per ripicca» ma «per la logica delle cose» esclude alternative alla crisi in caso di mancato voto di fiducia da parte dei 5 Stelle. Non solo il Pd fa muro sull’inevitabilità della crisi. Martella anche sull’impossibilità di mantenere l’alleanza: minaccia temuta ma anche avvertita come intollerabile ricatto dai 5S.

Forse è stato proprio l’affondo di Letta a spostare definitivamente gli equilibri a favore della linea dura.

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