L’anno elettorale americano è partito in maniera movimentata. Mentre Trump scambiava polemica per testimonianza nelle udienze nel suo processo per frode (primo di cinque procedimenti che lo riguarderanno), su Biden cadeva la tegola di sondaggi negativi in cinque stati critici, e un terzo dibattito si aggiungeva alla sceneggiata di una primaria repubblicana decisa già in partenza. Tutto sfondo per quello che sembra inesorabilmente profilarsi come un rematch fra i due anziani candidati il cui ultimo confronto aveva portato il paese sull’orlo dell’abisso (per citare lo stesso Biden.)

“L’elefante nella stanza” rimane l’incongrua “normalità” di un’elezione che potrebbe plausibilmente preludere alla crisi esistenziale della democrazia USA. In parte si tratta di un problema mediatico, con una stampa che si ostina a coprire come normale una campagna che tutto è fuorché ordinaria. in un contesto dove non vigono più le regole stesse del tradizionale contraddittorio politico e dialettico, anche la comunicazione politica e la sondaggistica diventano sommamente inaffidabili, orpelli anacronistici di un sistema che non conta più dinanzi alle tempeste emozionali amplificate (ed eventualmente pilotate) su piattaforme e bolle social.

Uno studio del Public Religion Resarch Institute, ha confermato il mese scorso che la post-politica emozionale delle “guerre culturali” eclissa ormai indicatori tradizionali –compreso il benessere economico – nel muovere la lancetta dei consensi. Nei sui comizi, quindi, Trump promette retribution – vendetta. Incarna il livore e desiderio di rivalsa della sua base, e tuona contro taccheggiatori da fucilare, immigrati da espellere, avversari marxisti, squilibrati o “pedofili,” riuscendo a mantenere i consensi dei suoi pur ancora in assenza di un vero curriculum o progetto politico.

Non si tratta solo, però, di spavalderia da comizio. Stavolta Trump, che nel primo mandato è parso spesso improvvisare, arriverebbe munito di un programma. La scorsa settimana il Washington Post ha per primo fatto riferimento ad un fantomatico “Plan 2025,” una specie di manuale per l’occupazione “militare” della democrazia nell’eventualità della sua elezione.

Il documento esiste davvero, un dossier di 900 pagine, compilato da “policy experts” della nuova destra in cui è incluso un “playbook” per i primi 180 giorni di un’ipotetica nuova amministrazione Trump. Nei primi sei mesi l’agenda prevede il metodico e rapido commissariamento del ministero di giustizia mediante nomine, oltre all’Attorney general, di quadri fedeli al presidente in ogni dipartimento del dicastero. Nel primo mandato due ministri della giustizia e diversi funzionari chiave si rifiutarono di seguire fin in fondo le direttive di Trump – specie nella fase della tentata sovversione delle elezioni. Nella concezione del Plan 2025, il ministero non sarebbe più indipendente, ma sotto il controllo diretto del presidente. Una volta infarcita la magistratura di funzionari leali, un governo Trump-bis prenderebbe di mira gli avversari politici.

Nella “enemies list” vi sono nomi e cognomi di nemici storici (la famiglia Biden in primis), parlamentari democratici ma anche svariati collaboratori e integranti della prima amministrazione Trump e perfino agenti del FBI, dimostratisi non sufficientemente fedeli o affidabili nell’applicare le direttive. Sulla lista spiccano i nomi di William Barr, già ministro della giustizia, il capo di gabinetto John Kelly, il capo di stato maggiore generale Mark Milley, oltre a vari avvocati che hanno patteggiato nei processi in corso o preso pubblicamente le distanze dell’ex presidente.

Nel rapporto, il direttore del Project 2025, Paul Dans, scrive che la carta servirà a preparare un nuovo esercito di quadri conservatori allineati e disciplinati e pronti a dar battaglia allo stato profondo. Fra gli elementi meno rassicuranti vi è la discussione aperta sull’opzione di invocare l’Insurrection act – sostanzialmente la legge marziale in forma di decreto presidenziale. A suo tempo Trump volle implementarla contro le manifestazioni di Black Lives Matters ma non trovò sponda nelle autorità giuridiche e nelle forze dell’ordine. Il piano per il 2025 si assicurerebbe che avrebbe mano libera (e pugno duro) contro i disordini che vengono già preventivati in caso di un suo insediamento.

Plan 2025 è l’ultima fotografia di una democrazia fragile su cui preme una destra imbaldanzita, e radicalizzata ideologicamente dall’arcipelago dei think tank conservatori. Uno di questi, la Heritage Foundation, ha coordinato la stesura del programma al quale hanno collaborato altre 70 fondazioni. Si tratta di “gruppi di studio” che danno lustro accademico alle idee reazionarie che alimentano il populismo della neodestra, dal Claremont Institute al The Movement di Steve Bannon. Molte sono finanziate da oligarchi di destra come i fratelli Koch o Harlan Crowe, al centro dello scandalo sulle laute regalie al giudice della corte suprema Clarence Thomas – fra i principali sostenitori dell’abrogazione aborto come diritto federale.

Fra i decreti esecutivi contemplati dal “plan,” c’è quello che dichiarerebbe illegale la pornografia, una formulazione facilmente estensibile a contenuti scolastici, come comprovato dagli “stati rossi” che hanno di recente epurato biblioteche adducendo “l’oscenità che minaccia i bambini.” Non ne ha fatto segreto Kevin Roberts direttore della Heritage Foundation: “Chi produce (pornografia) dovrebbe essere messo in prigione,” ha dichiarato. “Docenti e bibliotecari che la tollerano, meritano di essere iscritti nella lista dei predatori sessuali.”

Malgrado la presa delle “culture wars” e i recenti sondaggi regionali, è assai probabile che in un plebiscito Trump non prevarrebbe, e per la terza volta prenderebbe meno voti dell’avversario. Ne sono la prova le nette vittorie democratiche in Kentucky, Virginia e New Jersey questa settimana, e la serie di referendum a favore del diritto di aborto in singoli stati, anche conservatori. Ma l’anacronistica costituzione americana (qui, dove ve ne sarebbe davvero urgente bisogno, nessuno parla di riforma) prevede il sistema intermediato con collegi uninominali “indirizzabili” e la preferenza ultima espressa da grandi elettori nell’Electoral college. In questo regime non è affatto escluso che Trump possa spremere nuovamente i delegati che valgono lo studio ovale.

Molto può e deve ancora succedere in un anno in cui gli imprevisti sono assicurati. Ma se così fosse e “plan 2025” implementato, il primo mandato Trump rischia di rimanere alla storia come mera prova generale per una transizione ben più efficiente ad una democratura più fosca e liberticida. L’inizio della fine, forse, della democrazia americana come la abbiamo conosciuta – in un momento sommamente volatile per il mondo.