L’Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), società petrolifera di stato degli Emirati arabi uniti, è prima al mondo nella poco invidiabile classifica delle aziende i cui piani di espansione sono incompatibili con il rispetto degli obiettivi climatici. È quanto emerge dall’edizione 2023 del Global Oil & Gas Exit List, il database curato dalla ong tedesca Urgewelde che annualmente monitora le performance ambientali del settore fossile.

Una notizia che imbarazza il ceo Sultan Al-Jaber, amministratore delegato per Adnoc ma anche presidente di Cop28, l’imminente conferenza delle Nazioni Unite sul contrasto al riscaldamento globale. Gli autori del report parlano di un suo «chiaro conflitto d’interessi».
I delegati dei governi di tutto il mondo si riuniranno a Dubai dal 30 novembre al 14 dicembre, ma i negoziati sono di fatto in corso da mesi. Mentre i diplomatici hanno iniziato ad incontrarsi nei tanti meeting preparatori, gli attori non statali hanno calato le loro prime carte sotto forma di report, documenti strategici, studi. È il caso anche del rapporto di Urgewelde. La nomina di Sultan Al-Jaber alla presidenza di Cop28 aveva già attirato le critiche degli ecologisti. Adnoc, contattata dal Guardian, ha contestato i risultati dello studio tedesco, ma il documento rappresenta inevitabilmente una nuova fonte di polemiche.

L’Abu Dhabi National Oil Company, comunque, è in buona compagnia. I ricercatori hanno calcolato l’incompatibilità dei piani di espansione delle 1600 principali corporation del settore mettendo a paragone i loro progetti con le raccomandazioni dell’International Energy Agency. Sotto Adnoc, nella classifica dell’inadeguatezza figurano giganti come National Iranian Oil Company, ExxonMobil, China National Petroleum Corporation, Chevron.

Il report fornisce anche altri dati preoccupanti. Dal 2021 ad oggi l’industria dell’Oil&Gas ha speso 170 miliardi di dollari in esplorazioni per nuovi giacimenti. Il 96% delle aziende analizzate è impegnata nella ricerca di ulteriori riserve fossili, mentre più di 1000 corporation stanno lavorando a futuri gasdotti, centrali a gas o terminal di gas naturale liquefatto. Tutto ciò nonostante la letteratura scientifica sia da anni concorde sulla necessità di mantenere gran parte delle risorse fossili del pianeta sotto terra, se si vogliono rispettare gli obiettivi di politica climatica stabiliti a livello globale. «Non abbiamo spazio per costruire niente che emetta CO2» diceva già nel 2018 il direttore dell’International Energy Agency Fatih Birol.

Le Nazioni Unite, intanto, giocano una partita diplomatica tutta al rialzo, il cui obiettivo è evitare che l’asticella dell’ambizione sprofondi delegittimando l’intero processo negoziale. L’Unfccc, l’agenzia Onu dedicata al clima, ha rilasciato due giorni fa la sua analisi dei Nationally Determined Contributions, i piani nazionali di contrasto al riscaldamento globale che ogni governo deve presentare a partire dagli Accordi di Parigi. I risultati sono impietosi. Se anche gli impegni venissero rispettati – condizione tutt’altro che scontata – le emissioni globali aumenterebbero del 9% entro la fine del decennio rispetto ai dati del 2010. Se il paragone venisse fatto con la situazione del 2019, le emissioni al 2030 decresceranno di appena il 2% – contro il 43% previsto per lo stesso anno alla Cop26 di Glasgow. A Dubai occorrerà fare molto di più.

Cop28 arriva in un momento difficile per la diplomazia climatica. La crisi energetica ha indebolito i già fragili piani di transizione di molti paesi, mentre le tensioni geopolitiche rendono più difficile quel dialogo indispensabile per la firma di accordi efficaci. L’abilità della presidenza sarà centrale. E Sultan Al-Jaber appare ogni giorno di più come una figura inadatta.