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Il pericolo numero uno: la cultura dei free party alle origini dei Rave

Il pericolo numero uno: la cultura dei free party alle origini dei Rave

Movimenti Quattro sottoculture ne hanno prodotta una del tutto originale

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 10 dicembre 2022

Da dove arrivano, questi fantomatici «rave», oggi assurti a pericolo pubblico numero uno? Da lontano, da molto lontano, e gli ascendenti sono tutti nobili, con buona pace dei repressori dell’ultima ora.
I free party – questo il termine corretto –, infatti, affondano le loro radici in almeno quattro diverse sottoculture, di cui hanno preso e ibridato alcuni elementi, dando origine a un mix del tutto originale. Cominciamo dall’estetica di quei flyer in bianco e nero, deliberatamente artigianali, un pattern che torna nei backdrop dei soundsystem… Ricorda qualcosa? Certo, i flyer dei concerti punk hard core: e dal punk, in effetti, la free tekno prende parte della propria etica. Il «no future», che porta alla volontà di creare l’utopia qui e ora, dando vita a una zona temporaneamente autonoma, secondo la definizione di Hakim Bey, filosofo underground assurto a padrino della rave culture; ma anche il «do it yourself» (non è un caso che una delle primissime tribe, tra quelle che nel 1992, assieme ai più noti Spiral Tribe, trasformarono il free festival di Castlemorton in un teknival, si chiamasse proprio «DiY»), l’etica dell’autoproduzione, del riciclo e dell’orgogliosa alterità rispetto ai circuiti commerciali dell’intrattenimento e dell’arte.

L’altra metà della propria etica, la free tekno la mutua dalla cultura hippie, di cui riprende la psichedelia – la stessa Spiral Tribe nacque durante un’esperienza psichedelica – e la vocazione nomade: nell’Inghilterra degli anni ’90 la nascente cultura rave trovò sponde fertili nei “new age traveller”, eredi degli hippie degli anni ’60 e ’80.

Ma il discorso non sarebbe completo senza un altro elemento che viene dalla Giamaica: l’idea del soundsystem mobile come strumento di riappropriazione dello spazio pubblico. Chi non veniva ammesso nei pochi e costosi club di Kingston si inventò questa tattica, trasformando piazzette, strade o luoghi abbandonati in dancefloor, e così hanno fatto i raver.
Infine, la club culture: la techno, che si è poi divisa nei molti sottogeneri che si suonano a un free party, su tutti la tribe tekno (techno imparentata con l’hardcore, per dirla in breve), nasce a Detroit, in ambito clubbistico, e in generale il rave ha sempre avuto un percorso ora di contrapposizione, ora di affinità, a seconda delle città e delle contingenze storico-culturali, con la club culture, a cui deve, in fondo, le proprie scelte musicali.

Ma la cultura rave è anche un fenomeno prettamente europeo, e questo comporta altre necessarie considerazioni. Quando nel Regno Unito, in seguito a furiose campagne stampa alimentate dalle lobby dei locali notturni e degli alcolici, che si vedevano sull’orlo dell’apocalisse in un momento in cui i giovani migravano in campi e capannoni smessi arrivando addirittura a bere acqua – giacché l’alcol, si sa, non lega con l’MDMA e gli psichedelici –, vennero processati gli Spiral Tribe e i DiY, rei, assieme ad altri soundsystem quali Bedlam, Circus Normal, Adrenaline e Circus Warp, di aver invaso il festival di Castlemorton armati di muri di casse e musica techno, trasformandolo in un baccanale che non voleva più finire, e poi, dopo uno dei processi più costosi della storia giudiziaria britannica (che vide la «tribù della spirale» comunque assolta) si arrivò a legiferare nel tentativo di arginare la voglia di ballare della gente, arrivando a quel famigerato Public Order and Justice Act del ’94 che vietando «eventi dove la musica include suoni pienamente o predominantemente caratterizzati dall’emissione di una successione di battiti ripetitivi» di fatto metteva fuori legge la cultura rave (ricorda qualcosa?), quello che accadde non fu un soffocamento, ma un fertile spostamento.

Le tribe, consapevoli di ritrovarsi per le mani qualcosa di grosso, certe per pura evidenza che quel sincretismo, che trovava una nuova originalità anche grazie alle nuove tecnologie, e quindi alle nuove possibilità di espressione musicale, figlie dell’era digitale, era qualcosa di potente, emigrarono. Alle leggi repressive della nazione britannica faceva da contraltare un’Europa del tutto ignara di quanto stava arrivando, fresca di abolizione delle frontiere e immersa in una febbricola pan-europeista ancora poco messa in discussione, e anzi alimentata dal progressivo calo dei costi di viaggio e dal’affermazione di Erasmus e esperienze di lavoro all’estero come elemento base della formazione dei giovani.

Così le tribe scavalcarono la Manica e approdarono in Francia. Sebbene già determinate a diffondere le spore in tutto il continente – le prime feste free tekno in Germania e in Italia si registrano nel ’93, andando a sovrapporsi a una club culture (e conseguente afterhour culture) in entrambi i casi ben sviluppata e a legarsi per affinità naturale a parte del movimento delle occupazioni – fu la vicina Francia il primo luogo in cui la free tekno esplose, fondendosi a una forte scena hardcore (da lì veniva ad esempio una crew storica, gli AlliéNées, passati poi agli annali della tekno come Tomahawk, ma c’erano pure crew, come i Syndikate, che venivano dall’hip hop) e si internazionalizzò: il primo teknival – termine che definisce un free party con più soundsystem – si svolse nel ’93 a Beauvais, il non-luogo europeo contemporaneo per eccellenza: tutti siamo stati a Beauvais, ma nessuno è stato davvero a Beauvais, perché Beauvais è la sede dello hub aeroportuale Ryanair per Parigi. Sicronicità junghiana? Di certo un bel commento, nella pratica, a mutazioni che sarebbero arrivati di lì a breve.

La Francia ci mise qualche anno a reagire: la legge Mariani, analoga del Public Order and Justice Act inglese nel suo vietare ‘«eventi con musica ‘amplificata’ da più di 500 persone’» è del 2001, e arriva quando ormai la cultura rave è radicatissima nel paese – a dispetto della legge, i teknival si susseguiranno, e il 2022 è stato l’anno con più feste nella storia recente della Francia – ma anche in tutta Europa; tuttavia, la nuova legge costituirà motivo in più anche per le tribe francesi per intensificare le puntate all’estero.
Se già molte di esse avevano fatto passaggi da noi – Metek a Bologna, OQP alla Fintech di Roma, Tomahawk a Firenze… – è dal teknival sul Colle della Maddalena nel 2002, messo su al confine Francia-Italia, che diventano presenze fisse, mentre ormai l’intera Europa è contagiata, anche in virtù di un’azione reiterata e costante sia dei pionieri Spiral Tribe, che continuano imperterriti a organizzarefeste, sia di tutti coloro che da ogni paese europeo decidono di raccoglierne il messaggio e «partire in missione». Si può quindi dire, in retrospettiva, che il movimento free tekno è stato, oltre che «l’ultima controcultura», anche la prima a essere sinceramente e intrinsecamente pan-europea (ed ecco il quinto elemento del suo DNA: Schengen!); la repressione che lo ha sempre accompagnato, una repressione peraltro costantemente supportata dai media, dovrebbe quindi far riflettere, e molto, chiunque si senta e si pensi, oggi, europeo.

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