Il pasticcio sul prezzo della benzina combinato dal governo Meloni potrebbe essere l’antipasto che lo attende nella prossima primavera. Allora dovrebbe esaurirsi l’effetto «tampone» degli oltre 21 miliardi di euro stanziati dalla legge di bilancio per bloccare l’aumento dei prezzi dell’energia. «A fine marzo – ha scritto il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti nel Documento programmatico di bilancio 2023 – il governo rivaluterà la situazione e, se necessario, attuerà nuove misure di contrasto al caro energia utilizzando prioritariamente eventuali entrate aggiuntive e risparmi di spesa che si manifestassero nei primi mesi dell’anno».
Tra tre o quattro mesi potremmo rivedere governo e maggioranza attorcigliarsi di nuovo per trovare altri fondi, tagliare un bonus per finanziare un altro, opponendo chi prende il «reddito di cittadinanza» a chi riceva l’assegno per i figli, e entrambi a chi deve prendere la macchina e pagare il doppio la benzina. Sempre che non inizino a tagliare altre voci del Welfare. Il «reddito di cittadinanza» resta un osso da spolpare.

Per capire lo scenario sul quale sta ragionando il governo possiamo leggere il bollettino mensile pubblicato ieri dalla Banca Centrale Europea. Da qui si possono capire le preoccupazioni di Meloni & co. L’inflazione dei beni energetici e alimentari resterà più elevata delle attese e si potrarrà per almeno altri due anni in Europa, dice la Bce. I primi segnali di rallentamento registrati dall’Eurostat in una stima preliminare (a novembre i prezzi erano al 10%, in calo rispetto a ottobre: 10,6%) restano ben lontani dall’obiettivo del 2%. Un simile livello dovrebbe essere raggiunto nel 2025 (il 2,3%). Quest’anno, la media europea dovrebbe attestarsi al 6,3%. Nel frattempo la guerra mossa dalla Russia all’Ucraina continuerà «a destabilizzare i mercati delle materie prime energetiche e alimentari e i prezzi dell’energia resteranno volatili». Si prevede una recessione, ma a Francoforte dicono che sarà breve e «lieve». In ogni caso la Bce aumenterà la possibilità di recessione: rialzerà ancora i tassi di interesse oltre i 50 punti base, il denaro costerà di più, aumenteranno i mutui, calerà il potere di acquisto dei salari.
La Bce ha fatto un’osservazione interessante: le dispendiosissime misure a sostegno delle famiglie e delle imprese per contenere, senza riuscirci, il caro-energia «dovrebbero» frenare l’incremento dei prezzi nel 2023. Ma «una volta revocate, l’inflazione riprenderà a salire». Gli aiuti «contribuiscono considerevolmente alla correzione verso l’alto nel 2024 in un contesto in cui si prefigura la scadenza di molti di questi provvedimenti».

Sembra, dunque, che al di là dell’andamento decrescente dell’inflazione, i prezzi dei beni e dei servizi resteranno alti, e non solo quelli della benzina. Un problema per chi ritiene che la base sociale della «democrazia di mercato» siano i «ceti medi» e i «consumatori».

A differenza di quanto scrive la Bce la questiona centrale della nuova inflazione non è in sé l’aumento dei prezzi, ma il loro impatto sui salari e sui redditi. L’effetto del riflusso dei primi sarà comunque negativo sui secondi visto che i bonus governativi sono destinati prima o poi – più prima, che poi – a esaurirsi. Non per volontà di chi governa, ma perché i singoli Stati non possono finanziare a fondo perduto un sistema alle prese di una crisiprovocata anche dal blocco delle catene globali di approvvigionamento, dal calo della produttività e dagli effetti della crisi climatica. I margini di profitto delle aziende sono stati rosicchiati. Davanti a loro c’è una scelta: aumentare i prezzi delle merci oppure dare un altro taglio ai salari?

Questa prospettiva non sembra rientrare nelle previsioni della Bce che, invece, parla di una «crescita dei salari superiori alle medie storiche». In realtà non sembra proprio così. Questa non è un’inflazione da salari, ma da profitti. In Italia lo è senz’altro. In Francia i salari reali sono arretrati del 3% nell’ultimo anno. Negli Stati Uniti quelli nominali sono i più deboli da agosto 2021. È in questa trappola che si trova anche il governo Meloni: il calo del tasso globale dell’inflazione non implica un aumento dei livelli di vita.