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«Il neosionismo è destinato a fallire»

Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza nazionale e leader del partito di ultradestra Potere ebraico, durante un’incursione sulla Spianata delle Moschee foto Epa/Abir SultaItamar Ben Gvir, ministro della sicurezza nazionale e leader del partito di ultradestra Potere ebraico, durante un’incursione sulla Spianata delle Moschee – foto Epa/Abir Sulta

Tremenda vendetta Intervista allo storico israeliano Ilan Pappé sull’evoluzione del progetto coloniale israeliano: «La destra messianica non può sopravvivere senza reclutare l’intera società ebraica. Gli ebrei liberali si trasferiscono all’estero, quelli fuori protestano»

Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 5 ottobre 2024

riente: ebrei, cristiani e musulmani hanno vissuto insieme, è nel dna della regione. Lo dice la storia: sono stati molto più lunghi i periodi di coesistenza che quelli di conflitto». Lo storico israeliano Ilan Pappé, autore di ricerche e di libri che hanno stravolto la narrazione intorno alla Nakba palestinese e alla fondazione dello Stato di Israele, ne è ancora certo: uno stato unico democratico non è un’utopia. Nemmeno dopo un anno di brutalità senza precedenti. Lo incontriamo a Roma, dove presenta il suo nuovo libro, Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina, edito da Fazi (144 pagine, 15 euro).

Fin dal principio del suo nuovo saggio rende chiaro come la questione israelo-palestinese non nasca nell’ultimo anno. E nemmeno nel 1948. La sua ricostruzione prende le mosse da metà Ottocento.
Comprendere il contesto storico è importante perché, in sua assenza, non si capiscono le azioni dei vari attori coinvolti. Quelle di Hamas, quelle di Israele. Se si compie un’analisi in un vuoto storico, l’unica spiegazione che resta è che ci troviamo di fronte a degli animali, a dei barbari, alla violenza fine a se stessa.

lan Pappé (Photo by Colin McPherson/Corbis via Getty Images)
lan Pappé (Photo by Colin McPherson/Corbis via Getty Images)

Nel nostro ultimo incontro, lo scorso novembre, questa nuova guerra aveva un mese e mezzo di vita. Un anno dopo la situazione è molto peggiore: un genocidio in corso e l’offensiva sul Libano, due guerre combattute contro popolazioni civili. Dove va Israele? È rintracciabile una strategia?
Alcuni leader israeliani hanno una visione, altri solo una tattica. Quella del primo ministro è di rimanere al potere. Chi invece sa cosa vuole è il movimento neosionista messianico rappresentato da persone come Smotrich e Ben-Gvir. Non è una strategia, ma una visione: che il 7 ottobre si sia creata una grandissima opportunità di liberarsi dei palestinesi e completare quanto avvenuto nel 1948. Non è una strategia vera e propria perché non sanno davvero cosa fare. Pensano di agire esercitando maggiore pressione sulla Cisgiordania, faranno poi lo stesso con i palestinesi dentro Israele. Pensano che una guerra regionale sia cosa buona perché creerà una nuova realtà, la Grande Israele con pochissimi palestinesi e un mondo arabo che non oserà mai toccarlo. Non funzionerà.

È l’impressione che si ricava dall’attacco in Libano: ridisegnare il Medio Oriente. Un attacco che va oltre Hezbollah e colpisce l’intero paese è un messaggio alla regione?
Lo è. Gli piace chiamarla deterrenza, ma va molto oltre. Fanno riferimento ai tempi biblici e a re Salomone: è una visione megalomane. E non importa cosa ne pensino gli alleati, come gli Stati uniti che comunque daranno il loro sostegno. Israele spera in Trump presidente ma non è preoccupato se dovesse vincere Harris. Lo stesso in Europa, è confortato dalla crescita della destra anti-islamica, anti-araba per la quale si pone come difesa dell’occidente contro i barbari orientali.

Ricostruendo le fasi storiche prima e dopo il 1948, mostra come la guerra alle popolazioni non è nuova. La linea rossa era già stata superata?
Il sionismo è un progetto di colonialismo d’insediamento e come tale si pone un obiettivo e andrà avanti finché non lo avrà raggiunto: una nuova terra senza il popolo che la viveva. La differenza rispetto al passato, penso agli Stati uniti e al genocidio dei nativi a inizio Ottocento, è che Israele è sorto solo a metà del Novecento e ha il problema di doversi giustificare. I coloni bianchi in America non dovevano giustificare un genocidio, non interessava a nessuno. Israele non può farlo, per questo fin dal principio parla di autodifesa. La prima milizia paramilitare sionista è stata l’Haganah, che significa «difesa» anche se aveva lo scopo di prendere la terra con la forza ed espellere le persone. Buona parte di questa idea è persuadere se stessi, prima che il mondo, che si tratta di autodifesa quando in realtà è aggressione, oppressione, sfollamento.

Negli anni lei ha sostenuto che l’evoluzione messianica del sionismo ha provocato una crisi che condurrà alla sua fine. A un anno dal 7 ottobre conferma le sue previsioni?
Non modifico la mia analisi. Siamo di fronte a una società che implode e i gruppi messianici neosionisti non possono sopravvivere senza il sostegno della società ebraico-israeliana. Non sono in grado di reclutare gli ebrei laici, molti di loro se ne stanno andando. Il governo non rende noti i numeri ma sappiamo che sono moltissimi. Comprano casa altrove, ricominciano la loro vita fuori, trasferiscono il loro denaro all’estero. Quel piano non può funzionare: i messianici non possono realizzarlo da soli. Il collasso interno è un fattore importantissimo che si unisce al mancato sostegno da parte del mondo ebraico all’estero. La maggior parte dei giovani ebrei nel mondo sposano ideologie socialiste o progressiste. L’altra questione è quella dei regimi arabi: alcuni di loro continuano a garantire sostegno a Israele, ma le primavere arabe non sono un caso chiuso, la democratizzazione è un processo che alla fine si realizzerà. E più quel mondo diverrà democratico e più sarà pro-palestinese, modificando le politiche verso Israele. Oggi Israele beneficia del fatto che l’unica opposizione venga da gruppi islamisti come Hezbollah, Hamas, l’Iran. Ma questo è destinato a cambiare. E a chi pensa che le vittorie contro Hezbollah abbiano ricementato l’unità interna dico che si tratta di un fenomeno passeggero perché il problema non è risolto: esiste ancora un regime coloniale oppressivo e Israele non sarà mai al sicuro fin quando non permetterà ai palestinesi di vivere liberi.

Ha menzionato i movimenti ebraici di protesta fuori da Israele. Nella prima parte del libro, lei tratta anche delle sfide affrontare dal primo movimento sionista: un’opposizione ebraica importante in Europa a quel progetto.
Il sionismo fu una minoranza tra gli ebrei prima dell’Olocausto. La maggior parte degli ebrei concordavano con il problema che il sionismo aveva individuato, ovvero la crescita dell’antisemitismo a livelli pericolosissimi, esistenziali. Ma non riteneva che la soluzione fosse trasformare il giudaismo in un movimento nazionalista e in un progetto coloniale. Molti credevano di più in una rivoluzione socialista che avrebbe reso il mondo un luogo più sicuro per gli ebrei. Altri credevano in un mondo più democratico e liberale, altri nell’immigrazione in Nord Europa. E poi c’erano i religiosi secondo cui andare in Palestina era contrario al volere di Dio, costruire uno stato ebraico prima dell’arrivo del Messia era eresia. Con l’Olocausto a molti è parso che il sionismo fosse giustificato: nessun’altra soluzione aveva funzionato. Eppure il sionismo ha creato un luogo insicuro per gli ebrei. E oggi l’antisemitismo torna a crescere.

Lei ha sempre individuato nello stato unico democratico la soluzione. Ora, un anno dopo una simile brutalità, è ancora un’opzione?
È un dubbio comprensibile. Ma guardiamo alla storia, agli ex colonialismi, agli Stati uniti dopo la guerra civile. L’umanità è capace di adattarsi anche dopo un anno orribile come questo. È l’unica alternativa di salvezza a quella che nella guerra fredda chiamavano la distruzione mutua assicurata. La società palestinese, nonostante tutto, non vuole vendetta ma solo vivere una vita normale. In una tale possibile realtà, in una Palestina post-apartheid molti ebrei israeliani non vorranno vivere senza privilegi a e se ne andranno. Molti altri la troveranno una soluzione vincente per entrambi.

Sul lato palestinese oggi vede un’alternativa politica?
La leadership palestinese, come movimento, è in grande crisi. La risposta non giungerà dall’attuale generazione ma dalla prossima: i giovani sono molto più uniti e in grado di definire una nuova sinistra. Il problema è che credono poco nell’organizzazione, lo abbiamo visto anche con le primavere arabe. Va aggiunto poi un elemento: la sinistra nel mondo arabo dovrebbe cambiare attitudine verso la religione, l’identità di gruppo, la tradizione, quegli elementi che impediscono a una società di diventare progressista. La sinistra deve capire che sono cose che interessano a molte persone e deve trovare un modo di viverci invece di opporsi. Tanto più in una regione ricchissima di fedi ed etnie, dove vivono ezidi, drusi, maroniti…se non si comprende la fabbrica sociale, ogni analisi su cosa significhi rivoluzione sarà superficiale.

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