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Il Montana interiore di Joe Wilkins

Il Montana interiore di Joe Wilkins

L'intervista Parla l'autore di «Nella terra dei lupi», pubblicato da Neri Pozza, scrittore e poeta cresciuto nel Montana orientale e da qualche anno stabilitosi nell’Oregon. Nel romanzo racconta la crisi di un pezzo d’America che appare prigioniera dei propri simboli, dove la ricerca di un futuro praticabile per gli uomini e la natura si scontra con una cultura disposta a tutto pur di non mettersi in discussione

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 24 ottobre 2020

La natura incontaminata, il wilderness, e le sue regole sembrano decidere della vita sulle Bull Mountains, nello Stato dell’estremo nord-ovest americano del Montana. Ma solo a scalfire la superficie di questo mondo intriso del «mito della frontiera» ci si rende conto che le cose sono ben diverse. Gli ultimi cowboy vivono spesso di sussidi in comunità fatte di case mobili e dove l’abbandono scolastico, la diffusione delle metanfetamine e la violazione di ogni norma sull’allevamento e la caccia hanno reso inospitale e pericoloso l’ambiente circostante. Uno stile di vita è difeso a oltranza come una bandiera ideologica, mentre la natura nella quale si è andato definendo è ogni giorno di più avvelenata e messa a rischio.

Con Nella terra dei lupi (Neri Pozza, pp. 300, euro 18, traduzione di Norman Gobetti) lo scrittore e poeta Joe Wilkins, cresciuto nel Montana orientale e da qualche anno stabilitosi nell’Oregon, racconta la crisi di un pezzo d’America che appare prigioniera dei propri simboli, dove la ricerca di un futuro praticabile per gli uomini e la natura si scontra con una cultura disposta a tutto pur di non mettersi in discussione. Attraverso la vicenda di Wendell, giovane cowboy che si trova a prendersi cura di Rowdy, il figlio forse autistico di sua cugina, e di suo padre Verl, cacciatore di frodo e omicida preso a modello dalle milizie paramilitari locali, quella che va in scena in un romanzo dove l’amore per la vita in mezzo alla natura è più forte di ogni giudizio, è il confronto tra il passato e il presente di un mondo stretto tra la propria difficile realtà quotidiana e la promessa mai mantenuta del mito.

[do action=”citazione”]Individualismo radicale e violenza. Del «mito della frontiera» restano solo i ranch falliti e i centri minori divenuti città fantasma[/do]

 

Lo scrittore e poeta Joe Wilkins

 

«Nella terra dei lupi» fa luce su cosa si nasconda ancora oggi dietro al mito del West: una storia nata con il massacro degli amerindiani e ora fatta di violenza, povertà, distruzione della natura. Eppure le prime vittime di tutto ciò sembrano proprio coloro che difendono questo «stile di vita».
È vero. Il West americano è una realtà costruita sul genocidio e sul furto, e il mito della frontiera si basa sulla negazione di quella storia brutale. Il problema è che questa violenza non riconosciuta ha prodotto una serie di ripercussioni nel corso del tempo. Se si guarda a molte di queste zone del Paese non si può fare a meno di notarlo. Gli indicatori della qualità della vita sono diminuiti in tutta l’America rurale, spesso precipitosamente. Le fattorie e i ranch familiari continuano a fallire, i piccoli centri si trasformano in città-fantasma e la terra stessa è stata sfruttata o avvelenata dall’industria estrattiva o è soggetta alle dure conseguenze del cambiamento climatico.

Ad un certo punto Wendell mostra al piccolo Rowdy la discarica che si trova vicino al trailer in cui vivono e che, lungo una scarpata, raccoglie gli oggetti abbandonati dalla sua famiglia. Quasi un simbolo di cosa resti di quel mondo tenacemente idealizzato.
In tutti gli Stati Uniti molti credono che l’attività agricola, nonostante il massacro e l’allontanamento dei nativi, abbia funzionato. La storia racconta che i coloni attraversarono gli altipiani e si stabilirono nel West realizzando pian piano valide forme di sussistenza e comunità durevoli. Ma non ha mai funzionato davvero così. Fin dall’inizio ci siamo sbagliati su quelle zone: semplicemente non c’erano abbastanza acqua e terra buona per il tipo di agricoltura che si voleva praticare. E negli ultimi cento anni, dal Dust Bowl (una serie di tempeste di sabbia che colpirono gli Usa negli anni Trenta, ndr) alla crisi delle fattorie, abbiamo visto i risultati del nostro rifiuto collettivo a cercare modi sostenibili di vivere nella natura.

Si tratti del mandare o meno i figli a scuola, rispettare le norme sulla caccia, opporsi alla limitazione dell’uso delle armi, nel libro ricorre l’opposizione tra individuo e collettività. Che persone crescono in tale clima?
Alla fine del romanzo Wendell si rende conto che una delle cose che lo rendono diverso da molti di coloro che lo circondano, specie chi è legato a una milizia di estrema destra, è che costoro «pensano che tutto gli sia dovuto». Un atteggiamento che conosce bene, visto che è quello seguito da suo padre. E lui sa a cosa può portare questo individualismo radicale: alla distruzione di ogni legame, compresa la famiglia e l’amicizia. Non ci è dovuto nulla come individui, ma proteggendoci l’un l’altro, anche quando è difficile, possiamo guadagnare la grazia e la cura che derivano dalla comunità.

Il romanzo racconta generazioni di maschi interrogando l’idea di mascolinità dominante in questo mondo. Esistono delle alternative?
Ho cercato di mettere in discussione la cultura maschile che si intreccia a quella del West raccontando anche uomini che tentano di trovare altre vie, ammettendo i propri fallimenti e mettendo in discussione le risposte retoriche con cui sono stati allevati. Così, se Wendell può apparirci come un eroe è perché espone le proprie fragilità prendendosi cura di Rowdy e perché, simbolicamente, posa la pistola, invece di raccoglierla. Oltre a ciò, nel libro compaiono quel tipo di donne che ho conosciuto crescendo nel Montana, donne feroci e tenere, capaci e complesse. E spesso sole.

[do action=”citazione”]Ho iniziato a lavorare al libro durante la presidenza Obama e ho raccolto nella storia le tracce di quell’onda di risentimento, negazione, paura e rabbia che vedevo accumularsi nel Paese[/do]

 

Il romanzo è ambientato dopo l’elezione di Obama e mostra come quell’avvenimento abbia prodotto in una parte della società americana una reazione razzista e un risentimento su cui è poi cresciuto il fenomeno Trump.
Ho iniziato a lavorare al libro durante la presidenza Obama e ho raccolto nella storia le tracce di quell’onda di risentimento, negazione, paura e rabbia che vedevo accumularsi nel Paese. All’epoca però avevo sottostimato il pericolo. Solo in seguito, dato che ho terminato la stesura del testo quando Trump era stato eletto, ho capito quanto potente fosse quel fenomeno. Detto questo, certo il razzismo ha avuto un peso importante in ciò è accaduto, ma non credo si tratti solo di questo. C’è uno stereotipo secondo il quale la working class non presta attenzione alla politica, ma non so se è vero. Soprattutto nelle zone rurali le persone stanno cercando di trovare una via da seguire, ma non è facile. Vedono ciò che non funziona nelle loro vite e non sanno come farlo funzionare. E così cercano solo qualcuno da incolpare. È questo il tipo di risentimento che è cresciuto. All’epoca davano la colpa ad Obama, oggi vedremo…

Nel memoir «The Mountain and the Fathers» ispirato alla sua infanzia nel Montana, parla della necessità di riconoscere che «le storie ci possono far perdere ma anche salvare». Per i personaggi e il mondo descritti in «Nella terra dei lupi» c’è possibilità di redenzione?
La redenzione è (quasi) sempre possibile. E penso che in questo romanzo se ne può scorgere una traccia a partire dal rifiuto della violenza da parte di Wendell. Personalmente posso dire che le storie che mi raccontavano mia madre e mio nonno hanno contribuito a salvarmi in molti modi. E ora cerco di raccontare storie che possano fare lo stesso, che possano raccontare l’intera e difficile verità. E così facendo onorare veramente questi luoghi lontani e le persone che li chiamano casa.

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