Il Modello Roma che resiste sotto il cielo a Cinque Stelle
Polveriera Capitale La continuità culturale, nella politica sui rom, tra la giunta Raggi e il centrosinistra. Ghettizzazione e polverizzazione delle periferie: l’eredità di Veltroni e Rutelli. Malgrado le buone intenzioni iniziali, l’amministrazione non esce dall’emergenza
Polveriera Capitale La continuità culturale, nella politica sui rom, tra la giunta Raggi e il centrosinistra. Ghettizzazione e polverizzazione delle periferie: l’eredità di Veltroni e Rutelli. Malgrado le buone intenzioni iniziali, l’amministrazione non esce dall’emergenza
Come la stessa città eterna, il «Modello Roma» nato negli anni del centrosinistra resiste perfino sotto il nuovo cielo a Cinque Stelle della Capitale. Quel centrosinistra di Veltroni, Rutelli e Bettini che passò dall’idea di una città pubblica orientata ai servizi universali propria di Argan e Petroselli a una città del consumo che ha stravolto il disegno sociale originario con la cesura tra città consolidata e periferie polverizzate. Nelle questioni sociali il Modello Roma si riassume nello slogan «Nessuno resti solo» che nei primi anni 2000 portò a triplicare i posti di pronta accoglienza. L’altra faccia della medaglia prevedeva però gli sgomberi di campi spontanei, occupazioni e baraccopoli.
Nessuno sa quanti siano stati. A certificare oggi il fallimento del Modello Roma, resta il tumulto del sottoproletariato urbano e i miliardi sprecati per segregare i reietti della città (per dirla con Loïc Wacquant) e cronicizzare l’emergenza nel tentativo di occultare il disagio sociale. Con quei soldi si poteva riqualificare la Capitale e completare il disegno di Petroselli, e invece sono state create le premesse per la nascita delle prime banlieues capitoline.
Dentro quel modello c’è la politica dei campi rom sulla quale la sindaca Virginia Raggi mostra una perfetta continuità culturale con i suoi predecessori, quella politica che inizia negli anni ’80 quando la Regione Lazio approva una legge per la creazione di insediamenti per comunità ritenute erroneamente nomadi. Dopo averli autorizzati a sostare in alcune aree, nel 1994 la giunta Rutelli costruì il campo di via Salviati, il primo dei 10 previsti dal Piano.
IL PRIMO CENSIMENTO è del 1995 e rileva meno di 6 mila tra rom, sinti e caminanti, quasi la metà di età inferiore ai 10 anni. Tra controlli polizieschi e sgomberi, la seconda giunta Rutelli rivela il suo aspetto repressivo. È del 1998 il clamoroso, costosissimo e violento abbattimento di Casilino 700, considerato l’insediamento più grande d’Europa con 1500 persone fra bosniaci, montenegrini, romeni, macedoni, marocchini. Ufficialmente fu uno «sgombero umanitario», il campo era fatiscente e negli ultimi anni erano morti sei bambini.
Dopo aver raso al suolo le baracche, i marocchini furono spostati nell’adiacente campo Casilino 900 buio, umido e circondato da sfasciacarrozze. I rom con permesso di soggiorno furono invece trasferiti al campo Salviati2, un grande rettangolo di cemento sperduto tra i prati di via Collatina vecchia, vicino ai binari della ferrovia, lontano dai negozi. La politica dei container ebbe inizio allora. Nel 1999 Rutelli presenterà un nuovo Piano da 12 miliardi di lire di investimento gestiti dall’avvocato Luigi Lusi delegato del sindaco per gli «affari nomadi». In prossimità del Giubileo del 2000, il Piano prevedeva altri sgomberi, come quello effettuato da oltre mille agenti tra polizia municipale e militari in tenuta anti sommossa che alle due di notte fecero irruzione in quattro insediamenti. Lusi dichiarò: «Quando si ha a che fare con i criminali, bisogna agire in segreto, altrimenti scappano».
Fino al 2013 tutti i sindaci hanno veicolato il messaggio di voler trasferire i campi rom «fuori dal Gra», come se lì non risiedessero oltre un milione di romani. Eppure nel 2000 il Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale dell’Onu ha raccomandato all’Italia «di astenersi dal confinare i rom in campi fuori dalle aree residenziali, isolati e senza accesso all’assistenza sanitaria e ad altri servizi base».
IL SINDACO VELTRONI – che nel 2007, a seguito dell’omicidio di una donna da parte di un rumeno, mostra la faccia più feroce del Modello Roma – proseguì la linea segregazionista del suo predecessore con un doppio binario: sgomberi a tappeto e concentrazione dei rom nei «Villaggi della solidarietà». Con la magia delle parole che evocano il resort turistico, a via di Salone, in un’area lontana dall’abitato e da tutti i servizi pubblici, apre il primo villaggio del nuovo corso inaugurato nel 2006 per un costo di costruzione stimato in 6,5 milioni di euro.
Inizialmente era stato attrezzato con 138 moduli abitativi e 5 container di servizio per accogliere circa 600 rom originari da Bosnia, Serbia, Montenegro e Romania. Il campo fu circondato da una recinzione metallica e da un sistema di videosorveglianza lungo tutto il perimetro. In sei anni gli ospiti raddoppiarono, facendo di Salone uno dei più grandi insediamenti rom in Europa. L’aumento della popolazione del campo, il suo isolamento dal tessuto urbano, la mancanza di percorsi di inclusione sociale hanno portato ad un progressivo degrado dell’insediamento all’interno del quale si riscontrano costantemente problemi igienico-sanitari e atti criminali.
NESSUNO SA con precisione quanti siano stati gli sgomberi in quella fase. Un manifesto del centrosinistra per le elezioni comunali 2006 rivendicava che «A Roma sono state spostate in 5 anni 8.000 persone dagli insediamenti abusivi e chiusi decine di campi rom», firmato, da Ulivo, Udeur di Mastella, Rifondazione, Verdi e Radicali. Una media di 1.600 persone all’anno, oltre 113 al mese, quasi 5 persone al giorno. Secondo l’Associazione 21 Luglio uno sgombero costa 1.250 euro a persona, quindi, nel primo quinquennio di Veltroni sono stati spesi oltre 10 milioni di euro per “spostare” le persone. Dove sono andate? La maggioranza in altri campi spontanei, il resto in nuovi. Il coordinatore degli sgomberi era Luca Odeveine, il vicecapo di gabinetto del sindaco, mentre il principale gestore dei nuovi servizi era Salvatore Buzzi che aprì Castel Romano, entrambi condannati in primo grado nel processo Mafia Capitale.
Dal punto di vista del welfare e in particolare per rom e sinti, le politiche di Alemanno sono state la continuazione del Modello Roma con altri mezzi. Il Piano di Alemanno del luglio 2009 conta 13 villaggi attrezzati per accogliere circa 6.000 rom per un costo annuale di 20 milioni di euro. Alla fine della sindacatura nel 2013, i rom saranno circa 7 mila, distribuiti in tre differenti tipi di insediamento: 8 villaggi (3.680 persone); 9 «campi tollerati» (1.310); 200 insediamenti informali (2.000 persone).
Nel 2011 Alemanno amplia il campo de La Barbuta, quello che adesso la giunta Raggi dovrebbe far chiudere dalla Croce Rossa Italiana. Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks presenta un rapporto alle autorità italiane: «(gli sgomberi forzati con trasferimenti a La Barbuta) non si possono conciliare con la nuova ottica imposta dalla Strategia nazionale d’inclusione dei rom che è già in vigore in Italia. Piuttosto, si evince una sfortunata continuità della precedente politica ufficiale di stampo emergenziale».
SECONDO LE STIME dell’Associazione 21 Luglio, sono stati almeno 460 gli sgomberi dei campi informali effettuati tra il 2009 e il 2013, con un costo di circa 7 milioni di euro, dieci volte più di quanto aveva speso il comune per l’inclusione lavorativa di soggetti rom svantaggiati nel medesimo periodo preso in esame. Le famiglie rom ripetutamente coinvolte negli sgomberi sono state circa 480 (2.200 persone), con una spesa pro capite superiore a 14 mila euro, spesi per far vagare un nucleo da un capo all’altro della città senza alcun progetto.
Purtroppo anche la giunta Raggi, partita con l’ottimo intento di chiudere i campi, non sembra allontanarsi da questa scia: il Camping River di via Tiberina che doveva chiudere il 30 settembre è ancora lì perché le famiglie non riescono a reperire in autonomia un alloggio sul mercato privato da pagare con il buono casa e al momento vivono senza servizi. Senza contare la lievitazione delle spese per la manutenzione degli insediamenti ancora aperti. Per i lavori di manutenzione ordinaria nei villaggi rom sono già stati impegnati 600 mila euro mentre nei giorni scorsi è stato pubblicato «il bando per lo svuotamento delle vasche di accumulo dei “villaggi attrezzati” per un impegno di spesa massimo di 2 milioni e 800mila euro». Dunque ancora, e sempre, milioni di euro in fumo per l’emergenza.
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