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Il laboratorio collettivo dell’emancipazione

Il laboratorio collettivo dell’emancipazioneImmagini del giorno della Liberazione in una città del Nord del Paese

25 aprile La Resistenza costituisce la prima - e forse ancora ineguagliata - «officina» della costruzione spontanea di un’autonomia degli individui

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 aprile 2023

Lo sforzo che è consegnato ad ognuno di noi, in quanto cittadini del nostro tempo, è quello di imparare ad interpretare i segni dell’età corrente. Che non è mai un esercizio fine a se stesso. Piuttosto, richiama la capacità di dotarsi del senso dell’azione politica, la quale non è certezza precostituita bensì ricerca di significati nella babele del presente, tali poiché capaci di congiungere esistenze altrimenti divise per sempre.

Se il fascismo divide, l’antifascismo cerca, a modo suo, di unire. Quindi, c’è un lascito, nell’esperienza della lotta di Liberazione, che ci è consegnato dal tempo che passa e che, nel suo trascorrere, ci avvicina – invece che allontanarci – dal senso profondo della concreta esperienza storica di essa: la Resistenza, nella storia del nostro Paese, costituisce il primo – e forse l’ancora ineguagliato – laboratorio di costruzione spontanea di un’autonomia degli individui così come delle collettività. Si tratta quindi dell’officina dell’emancipazione. Poiché rompe non solo con il tempo del regime mussoliniano ma anche con quello dell’età liberale. Come tale è necessariamente imperfetta, da molti punti di vista. Essendo soprattutto impresa di auto-riorganizzazione tanto immediata quanto plurale, nata e cresciuta attraverso le spinte spontanee, improvvise nonché improvvisate – quindi tra di loro anche molto contraddittorie – provenienti dal basso di quella società, già piegata in sé, che stava per essere definitivamente schiacciata dal rullo compressore degli eventi.

Tutto ciò, e molto altro ancora, rappresenta l’esatto inverso del fascismo-regime prima, come del crepuscolare, bilioso e rancoroso fascismo repubblicano poi. In quanto questi due ultimi enfatizzavano la dipendenza e la subordinazione gerarchica come caratteri imprescindibili nell’esistenza degli individui. Lo scandalo del fenomeno resistenziale, in fondo, riposa in qualcosa che già un giovanissimo Marx («Per la critica della filosofia del diritto di Hegel», 1842-1843) aveva identificato, a suo tempo, come il fondamento della lotta per la propria libertà: «l’arme della critica non può certamente sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse.

La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso».

Fin troppo facile, ad oggi, prendersi gioco di tutto ciò. Nulla peraltro transita inutilmente. La contrapposizione odierna tra antifascismo e fascismo, tanto più a distanza di quei molti anni consumatisi dall’accadimento delle vicende storiche in questione, va quindi riformulata anche sulla base di questa consapevolezza. Poiché, proprio per una tale ragione, non si è esaurita con il trascorrere del tempo, trattandosi semmai di una questione che rimanda al senso profondo dell’esistenza. Individuale così come collettiva. In quanto rivela l’antitesi tra il bisogno di dotarsi di un’etica civile, basata sulla ricerca del senso della libertà, e la capitolazione alla necessità di vivere altrimenti la propria esistenza, ossia in termini subalterni, omologati, uniformati.

L’autentica frattura tra ciò che definiamo come «fascismo» e quanto ad esso storicamente si oppose, si gioca pertanto su questa profonda discriminante esistenziale. Che diventa poi solo successivamente consapevolezza politica. Se fosse altrimenti, infatti, avremmo già archiviato quella che costituirebbe una parentesi trascurabile della nostra storia individuale, familiare, nazionale, continentale. Esattamente quello che le destre postfasciste, populiste e sovraniste ci chiedono invece di fare.

Al nocciolo del fascismo di sempre non c’è solo la sua intrinseca violenza, il suo richiamo alla sopraffazione come vocazione di fondo (quindi tanto «naturale» nel suo essere falsamente «autentica», cioè in quanto fondamento della pulsione di gruppo) rispetto a ciò che invece riconosciamo come «umano»; semmai, il suo vero nucleo è anche – e soprattutto – la commistione tra qualunquismo e conformismo. In quest’ultimo caso si tratta del vero significato dell’abbandono di se stessi all’incoscienza e all’omologazione alle logiche mortifere del sistema di potere dominante. Il nocciolo della continuità tra il passato e il presente, il vero calco ideologico, non si trova nei Farinacci, in Balbo, nei Pavolini ma in un Montanelli e nei corifei della subordinazione qualunquista.

Proprio per una tale ragione, quindi, il fascismo non è mai morto. In quanto ripete ciò che già gli preesisteva in età liberale e che come tale, dopo il 1945, persiste, sia pure in maniera carsica, a tutt’oggi, in epoca repubblicana e costituzionale. Anzi, si rinnova e si ripete. Con consenso e successo evidenti, posto il panorama politico, nazionale e continentale, con il quale dobbiamo confrontarci. Il senso della lotta di Liberazione, se dobbiamo pertanto trovare una radice che non muore, sta nella capacità, nei momenti di violenta transizione, di cercare nell’auto-organizzazione dal basso le risorse elementari per ricostruire il significato dell’esistenza.

Non si tratta solo di un rimando al passato; semmai è viatico per il futuro a venire. Anche per un tale ordine di ragioni, quindi, alla stanca e trita riproposizione di una narrazione che vorrebbe assopite e poi esaurite, una volta per sempre, non solo le contrapposizioni ma anche le passioni e, soprattutto, le ragioni, del tempo trascorso, va invece contrapposta l’esigenza di una netta separazione. Non tra il giusto e l’ingiusto, tra il corretto e lo sbagliato (in storia, così come in politica, a conti fatti queste categorie valgono poco se non nulla) bensì tra il generativo, ovvero quel che dà corpo e sostanza ad un mondo a venire, e il distruttivo, ciò che divora quanto già c’è.

Il fascismo eterno, quello che non termina mai, essendo reazione all’evoluzione delle società, non è un’ideologia politica ma la devastazione, la desertificazione, la frantumazione del pluralismo. Una questione, quest’ultima, che si ripropone oggi. Con urgenza, nell’età del capitalismo digitale. In un tale ordine di considerazioni si inscrive quindi la ricerca di un’inesistente «pacificazione» tra le parti opposte. Che nei tempi a venire, se ne può stare certi, verrà ossessivamente riproposta per legittimare, parificare e poi recuperare (e magari beatificare) il fascismo repubblicano e poi, con esso, il neofascismo. Poco ma certo.

Le traiettorie sono già da adesso evidenti: sganciare la tragedia della Shoah dalle sue responsabilità politiche; affogare la violenza fascista e neofascista dietro un rimando al «clima d’odio» che, nel momento stesso di fingere di volerlo contrastare, è invece richiamo all’ordine gerarchico dei più forti; annichilire il conflitto sociale, trasformandolo in una sorta di eterna guerra etnica, tra «migranti» e autoctoni, nel mentre una società signorile di élite coltiva le sue prerogative di contro al resto della comunità. Il tema della violenza, come rottura del monopolio statale del ricorso alla forza, si inscrive ancora una volta in quest’ordine di riflessioni.

Si tratta di una questione tanto spinosa quanto impronunciabile, al giorno d’oggi. Poiché si inscrive in una falsa pedagogia pubblica che invece identifica nell’ordine neoliberale, e liberista, il fondamento di ogni residua liceità. Quel che oggi dobbiamo continuare a cercare non è una precostituita moralità della Resistenza bensì quell’etica che spontaneamente riposa in essa, essendosi costituitasi nel corso del tempo, con l’esperienza storica che fa di sé. Come tale – tuttavia – destinata quindi a riflettersi su ognuno di noi.

Sono due cose molto diverse, a ben vedere. Qualsiasi rigetto di ciò che si dà come potere costituito, non necessariamente ha una qualche legittimazione per il fatto stesso di mettere in discussione la liceità dell’esistente. Semmai, il vero punto di rottura, e quindi di non ritorno, è la capacità di prefigurare quel che potrebbe ad esso subentrare. Non solo sostituendosi bensì creando una nuova legittimità. Fondata su un’etica del tutto inedita. Questo è il vero lascito della lotta di Liberazione.

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