Il Jobs Act e l’imbroglio dello stregone
Lavoro Quanto è dura la vita per gli odierni liberisti. Tra piogge di sussidi alle imprese, protezionismo montante e nuovo dirigismo di guerra, la dottrina del laissez-faire sembra ormai finita nella […]
Lavoro Quanto è dura la vita per gli odierni liberisti. Tra piogge di sussidi alle imprese, protezionismo montante e nuovo dirigismo di guerra, la dottrina del laissez-faire sembra ormai finita nella […]
Quanto è dura la vita per gli odierni liberisti. Tra piogge di sussidi alle imprese, protezionismo montante e nuovo dirigismo di guerra, la dottrina del laissez-faire sembra ormai finita nella soffitta delle ideologie superate dagli eventi. Eppure i suoi cantori non demordono. Fedeli alla linea, ritengono che la storia abbia preso il verso sbagliato e cercano di raddrizzarla declamando con ancor più fervore le magnifiche sorti progressive del libero mercato. Soprattutto, guarda caso, del libero mercato del lavoro.
Negli ultimi giorni le grida indignate dei liberisti hanno preso di mira l’iniziativa della Cgil sui referendum anti-precariato. I fautori dei licenziamenti facili e dei contratti temporanei sostengono che la politica di precarizzazione che ha imperversato negli ultimi decenni, per quanto amara, è stata una medicina indispensabile per creare posti di lavoro. Pertanto, essi lamentano che una eventuale vittoria referendaria provocherà solo danni, con meno sviluppo e meno occupazione.
Ma è proprio vero che la precarietà ha creato lavoro? Dinanzi a questa domanda, Matteo Renzi e gli altri alfieri del Jobs Act la fanno piuttosto facile. A loro avviso, se negli anni successivi all’approvazione di quella legge c’è stato un aumento degli occupati, questo dovrebbe esser sufficiente per sostenere che la norma ha creato nuovi posti di lavoro.
A ben vedere, un tale ragionamento è quanto di più lontano da un discorso che possa definirsi scientifico, visto che dimentica tutte le altre variabili in gioco, tra cui il fatto rilevante che nell’arco di tempo esaminato si sono attuate politiche monetarie e di bilancio più espansive che in passato. Se ci pensiamo, questo modo prevalente di affrontare l’argomento somiglia molto al vecchio imbroglio dello stregone: se prima danzi e magari dopo cade la pioggia, allora potrai dire che la danza ha provocato la pioggia, senza alcun bisogno di attardarti sui venti, sulla temperatura o sul vapore acqueo.
Ma allora, se sgombriamo il campo dalle risibili stregonerie renziane, qual è la realtà dei fatti? Esistono prove scientifiche della tesi secondo cui la precarietà del lavoro crea occupazione? La risposta è: no. Una recente-meta analisi ha mostrato che l’88 percento di tutte le ricerche pubblicate su riviste di rango internazionale nega l’esistenza di relazioni statistiche significative tra precarizzazione dei contratti e crescita dell’occupazione. Il riscontro è così schiacciante che persino le grandi istituzioni propugnatrici della flessibilità del lavoro hanno dovuto prenderne atto. In vari rapporti del Fondo Monetario Internazionale, dell’Ocse e della Banca Mondiale si legge testualmente che l’impatto occupazionale della libertà di licenziare risulta «insignificante», «non significativo», «nullo». Anche l’ex capo economista Fmi Olivier Blanchard, smentendo i suoi stessi modelli teorici, ha ammesso che tra precarietà e occupazione non c’è un legame empirico attendibile. Se non è un mea culpa, poco ci manca.
Tutte queste evidenze si spiegano in modo abbastanza semplice. Se si può ammettere che i contratti precari inducono gli imprenditori ad assumere di più nelle fasi di espansione economica, allora per la stessa ragione si deve riconoscere che quegli stessi contratti consentono ai capi delle imprese di licenziare di più quando c’è crisi. L’implicazione è che tra posti di lavoro ogni volta creati e distrutti, l’effetto occupazionale netto è zero.
Se dunque non serve a creare occupazione, quali sono gli obiettivi reali della precarizzazione? La risposta dell’evidenza empirica è chiara: quando si abbassano le tutele del lavoro diminuiscono anche le retribuzioni e la quota salari sul Pil, mentre aumenta la quota dei profitti e delle rendite. Risulta così avvalorata una tesi di Richard Freeman, dell’autorevole National Bureau of Economic Research: la legislazione del lavoro regola non tanto il volume quanto piuttosto la distribuzione della produzione, e più in generale la lotta tra le classi sul controllo del processo produttivo.
Gli avversari del referendum non hanno seri argomenti da avanzare: sul terreno scientifico la battaglia contro il precariato è già vinta. Eppure, sul terreno politico, la vittoria è tutta da costruire.
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