La ricetta firmata dal governo Meloni per far fronte alla crisi energetica con lo sblocco delle trivelle nell’Adriatico è solo «un premio per le multinazionali dell’oil&gas». Nessun vantaggio per i cittadini. Il contenuto del decreto-legge Aiuti quater, approvato il 10 novembre e probabilmente in Gazzetta ufficiale a partire da oggi, è stato prontamente criticato dal Coordinamento nazionale No Triv. «Consentiamo nuove concessioni e ne sblocchiamo alcune – ha dichiarato la presidente del Consiglio dei Ministri – in cambio del fatto che le aziende concessionarie cedano a prezzo calmierato il 75% del gas estratto per i primi due anni. Riteniamo così di poter arrivare a liberare circa 2 miliardi di metri cubi di gas che possono coprire l’intero fabbisogno delle nostre aziende gasivore».

LE SUE PAROLE – SECONDO I NO TRIV – non sarebbero che la conferma di una «lucida coerenza fossile», che ritarda ulteriormente gli impegni assunti a livello internazionale per far fronte alla crisi climatica. Si procede da anni con decreti legge in deroga a quanto approvato prima. E così ha fatto il governo Meloni. In questo casi si è derogato non solo al dl numero 152 del 3 aprile 2006 ma anche sommessamente al Pitesai, il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, approvato un anno fa. Si allarga la porzione di territorio in cui trivellare, rendendo nuovamente fruibile l’Adriatico, «senza tuttavia considerare – avvertono i No Triv – che parte di quelle concessioni è scaduta e che le concessioni hanno comunque una durata ben definita che prescinde dall’esaurimento o meno del giacimento».

L’INTERDIZIONE DI QUESTA PORZIONE del Mediterraneo viene interrotta così dopo 12 anni di stop. La decisione ha fatto insorgere molti comuni del Veneto, che rientra tra le zone maggiormente interessate dalle nuove disposizioni. Tra le novità anche una restrizione delle distanze per trivellare: da 12 miglia dalla costa si passa a 9. «L’area marina interessata, posta al largo del Delta del Po e vasta 126 chilometri quadrati, è compresa tra il 45° parallelo, poco più a sud del Golfo di Venezia, e il parallelo passante per la foce del ramo di Goro nel fiume Po. Qui si potrà quindi trivellare – spiegano i No Triv – anche a solo 9 miglia dalla costa a condizione che si sfruttino giacimenti con un potenziale minerario di almeno 500 milioni di metri cubi: un vero incubo per i residenti ed i Comuni del Polesine, più volte duramente colpiti dal fenomeno della subsidenza».

CHE L’ABBASSAMENTO VERTICALE della superficie terrestre sia connesso alle attività estrattive è ampiamente dimostrato dalla comunità scientifica internazionale. A rimarcare gli effetti devastanti sul territorio già accertati è stato lo stesso presidente del Veneto Luca Zaia: «Le perforazioni nel nostro Polesine hanno dato vita ad una subsidenza, cioè un calo dei terreni, fino a 4 metri». Le conseguenze delle trivellazioni sono evidenti lungo la costa adriatica anche nel tratto tra l’Emilia Romagna e le Marche. Come riportato dall’Ispra, la subsidenza naturale può essere causata da «processi tettonici, movimenti isostatici e trasformazioni chimico-fisiche dei sedimenti per effetto del carico litostatico o dell’oscillazione del livello di falda. Alcuni aspetti dell’attività antropica possono influenzare in modo considerevole il fenomeno o addirittura determinarne l’innesco». L’attività petrolifera rientra tra questi.

IN UNO STUDIO PUBBLICATO NEL 2016 dal geologo Giuseppe Gisotti della Società italiana di geologia ambientale si legge che «l’effetto più importante della estrazione di idrocarburi è la subsidenza accelerata: anche 10 mm/anno di fronte a 1-2mm/anno della subsidenza naturale. In Italia il caso di Ravenna ha prodotto danni gravissimi». Il fenomeno favorisce l’erosione della costa e un maggior numero di danni in caso di terremoti. «Nella relazione illustrativa del provvedimento (approvato dal Consiglio dei Ministri, ndr) si citano ben 5 permessi di ricerca che insistono parzialmente o integralmente tra il 45° parallelo e il parallelo passante per la foce del ramo di Goro del fiume Po e di questi, uno riguarda la costa veneta, con il 40% dell’area interessata oltre le 9 miglia e, quindi, potenzialmente coltivabile», spiegano i No Triv. I territori potenzialmente interessati sono tutti quelli in cui vi sono già concessioni vigenti, 46 in totale. Le novità potrebbero riguardare il Delta del Po e una parte del Canale di Sicilia. A stipulare i contratti di acquisto di diritti di lungo termine sul gas sarà il Gestore dei servizi energetici. «Sulla base del contratto – spiega Enzo Di Salvatore, cofondatore del Coordinamento nazionale No Triv – il concessionario si impegnerà a corrispondere il gas estratto allo Stato a prezzo calmierato. Per 10 anni al massimo. Poi, giacché le concessioni hanno una durata superiore a 10 anni (o comunque alla durata fissata dal contratto), il concessionario sarà libero di continuare a vendere a prezzi di mercato e a chi vuole. Peraltro, di questo gas ne beneficeranno solo le grandi industrie energivore».

SI STIMA CHE SIANO CIRCA 150 LE SOCIETA’. Il prezzo calmierato oscillerà «tra un minimo di 50 euro ed un massimo di 100 euro per megawattora». L’esecutivo assicura così facendo «in 10 anni 15 miliardi di metri cubi di gas, di cui 2 subito, che andrebbero ad aggiungersi agli attuali 3,5». Tuttavia – secondo i No Triv – vi sono limiti evidenti alle decisioni prese: il dl «non incide sulle cause strutturali del caro-energia che sta colpendo duramente tutte le imprese (non solo quelle gasivore) e le famiglie; premia i principali player dell’oil&gas – Eni tra tutti – che hanno tratto enormi profitti grazie alla crisi; promuove l’estrazione ed il consumo di gas naturale assestando un duro colpo alla transizione energetica. A beneficiare della misura saranno soprattutto coloro che hanno tratto maggiore vantaggio dalla crisi energetica».

LA MAGGIOR PARTE DELLE CONCESSIONI fanno capo al colosso a sei zampe. «Nei primi 9 mesi del 2022 Eni ha portato a casa utili per 10,8 miliardi di euro – fanno sapere i No Triv – importa circa la metà del gas naturale importato dall’Italia in un anno, si approvvigiona di gas per il 61% del suo fabbisogno dalle importazioni tramite contratti pluriennali (fino a 30 anni), a prezzi blindati e secretati dallo Stato, espressi sostanzialmente dai prezzi doganali». Quello dell’esecutivo si annuncia un buco nell’acqua. Il nostro Paese non eccelle per quantitativi a disposizione di gas: le riserve accertate dal Mite al 31 dicembre dello scorso anno ammontano a 111.075 miliardi metri cubi. «La concreta possibilità di sfruttamento riguarda soltanto 70/80 di essi», avvertono gli attivisti.

QUANTO APPROVATO NON TIENE neanche conto delle aree già dichiarate inidonee all’interno del tanto criticato Pitesai. Il Piano redatto nel 2019 considera compatibili il 42,5% del territorio nazionale, per un totale di 156.403,76 km quadrati, di cui l’81,6% in terraferma e il 18,4% in mare, compresi tra Sicilia, Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Basilicata, Puglia, Abruzzo, Campania e Lazio. Anche in questo caso si procederà in deroga. «Ne consegue – dicono i No Triv – che anche il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) ed il Pnrr, che si riconnette al primo, dovranno essere riscritti». Si attendono ancora invano invece le norme attuative sulle Comunità energetiche rinnovabili, rivendicate martedì in un sit-in delle ong davanti al Mite. «Potrebbero consentire – secondo i No Triv – la realizzazione di almeno 10 GW/anno di nuova generazione elettrica in un Paese, come il nostro, baciato dal sole come pochi altri ma in cui metà della produzione di energia elettrica dipende dal gas».