Il girone infernale delle schiave
Inchiesta Viaggio nel centro antiviolenza del quartiere romano Trullo, dove un gruppo di donne vittime della tratta dell’immigrazione - costrette per anni alla prostituzione - ha ritrovato la vita
Inchiesta Viaggio nel centro antiviolenza del quartiere romano Trullo, dove un gruppo di donne vittime della tratta dell’immigrazione - costrette per anni alla prostituzione - ha ritrovato la vita
Lei è una goccia d’acqua nell’oasi del deserto del business mondiale della tratta delle donne e delle persone. Parla veloce, ti guarda dritta negli occhi come una gatta di strada che ne ha viste di tutti i colori, quando sorride e parla della sua nuova vita si apre come un fiore di loto d’acqua che galleggia libero e puro nell’acqua dei ricordi del suo violento passato. Parlando d’amore come se fosse una coreografia di Carolyn Carslon.
Siamo in piedi, all’ingresso del centro antiviolenza del Trullo «prendere il volo» ideato dall’associazione Differenza Donna (della rete D.I.Re) e parte di un progetto tra il Ministero delle Pari opportunità, la Provincia di Roma e altre sei associazioni (Il Cammino, Magliana 80, Parsec, Be Free, Fiore del deserto e ATS) per dare alle donne vittime della tratta una seconda chance nella vita e per aiutarle ad uscire dall’incubo della prostituzione negoziata, reinserirle nel mondo del lavoro e ricostruire i loro spazi e le loro vite violate. Siamo accanto ad una bella libreria, di fronte ad un muro bianco illustrato dai disegni colorati lasciati qui dalle ospiti di questo centro. Lei si guarda attorno, lancia un’occhiata alle operatrici del centro per capire se è tutto ok. In un nano secondo dice «Ero analfabeta prima di arrivare in Italia, non sapevo né leggere, né scrivere». Per una giornalista, nel 2013, questo è un colpo alla pancia ma attutisco con un bel respiro e rispondo con calma. Sono da poco arrivata al centro camminando per le vie del Trullo, pensando proprio alle ultime righe del libro letto in fretta «La fabbrica delle prostitute» di Giuseppe Carrisi. Il mio pensiero si muove tra ricatti economici, il debito che queste donne devono pagare a destinazione, le menzogne, le false illusioni, lo sfruttamento intensivo e sui riti voodoo africani che si fanno sulle donne e sulle ragazze prima di partire per un viaggio disumano che le porta a tappe dal continente africano sulle strade italiane.
L’atroce ricatto
Devono lasciare una foto e pezzi di unghie, capelli e altre parti del corpo prima di partire. Bere sangue di gallina e giurare di fare tutto quello che le verrà richiesto perché altrimenti moriranno e le loro famiglie saranno uccise. Per loro questo è un patto con gli spiriti dell’anima che verrà sacrificata – un cerchio magico da cui sembra impossibile fuggire. Per le altre è un patto occulto con il male. Con le mafie del traffico della prostituzione in continuo mutamento, perché la tratta è un traffico di persone che transitano in tutto il mondo da sud a nord, da est ad ovest, meno rischioso del traffico di armi e di droghe ed è una merce che non mancherà mai in nessuna crisi economica mondiale, o guerra e che si controlla con la violenza, l’inganno e il ricatto umano. Purtroppo.
Così sono stata «rapita»
Chiara, Loredana e Giusy mi hanno accolto con un gran sorriso. «Questa è una questione di violenza di genere. – spiega Chiara Scipioni, la responsabile del centro – non si può ignorare che la questione del traffico delle donne sia una violenza di genere perché è una violenza sul dominio e il possesso del corpo». Visitiamo il centro, le tre stanze che ospitano le ragazze uscite dal girone infernale della tratta. C’è una ragazza cinese che studia con il vocabolario e prende appunti nel salone comune, una piccola sala – palestra, una ragazza africana che torna dal negozio con il necessario per fare le treccine sui capelli ricci, una donna brasiliana che guarda la Tv e poi leì , una ragazza rumena che chiamerò «Rugiada», come appunto una goccia d’acqua nel deserto. Gli spazi del centro sono chiari, belli e accoglienti.
«Sono partita da casa perché ero povera, ero in ospedale e mi avevano detto che non mi potevo curare. Avevo una malattia incurabile e poi loro sono venuti e mi hanno promesso che se andavo con loro in Italia potevo curarmi. Io avevo un figlio piccolo e volevo vivere e ho detto di sì»- racconta Rugiada.
Loro chi? Chiedo. «Una coppia. Marito e moglie – sono arrivati in ospedale e mi hanno promesso che mi avrebbero aiutata. E poi? «Sono andata a casa loro in Italia, e mi hanno mandato subito in strada per ripagare il debito – era vergognoso, io mi vergognavo perché dovevo stare quasi nuda e mi vedevano tutti, bambini, e adulti. Non sono mai andata in ospedale a curarmi, poi mi facevano fare tutto, mi prendevano tutti i soldi, mi picchiavano, mi drogavano e mi facevano i filmini che hanno visto tutti».
«Io litigavo sempre con lei, ma non ho mai visto il capo, anche loro erano piccoli ma quando vengono a casa in Romania si sentono grandi e studiano il tuo punto debole e poi ti manipolano. Se sei carina ti prendono subito e poi se sanno che tuo padre ti picchiava o oltre brutte storie di famiglia ti portano via» – racconta.
«Quando ero in Romania in ospedale, avrei fatto qualsiasi cosa pur di guarire e stare con mio figlio».
Il coraggio di rompere il cerchio
«Ma non lo fanno solo con le donne, lo fanno anche con i bambini per chiedere l’elemosina e con gli uomini, anche quelli più vecchi» dice la ragazza. «Ero spaventata, non sapevo leggere, né scrivere, avevo sempre bisogno di un traslatore (traduttore) – ride e ridiamo sulla parola traslatore tutte per alleggerire la tensione di questa conversazione- poi ho avuto il coraggio di uscire dal cerchio». Come è successo? «Sai ti drogano, ti fanno di tutto, tante cose , sono stata rapinata due volte, mi hanno puntato la pistola in testa , mi hanno rubato tutto e lasciato nuda nei boschi senza vestiti, per umiliarmi e poi nella vita c’è un giorno che ti senti forte, Cinque minuti in cui stai bene e decidi di rompere il cerchio» racconta la giovane donna guardando prima Chiara, poi Loredana e poi me. «Così un giorno ho detto ad un poliziotto che ci stava seguendo che volevo uscire e che doveva portarmi in un luogo sicuro- dice – e sono venuta qui. Il centro è una «salvaria» – e ridiamo per non piangere dopo questi racconti- La Salvaria ripete in Romania è un’ambulanza». «Adesso sono contenta che sono viva, tante ragazze spariscono, muoiono, oppure si sposano uomini solo per uscire dal cerchio. Io ero una ragazza povera ma pulita. Sono qui a raccontare la mia storia grazie al centro che mi ha insegnato a vivere, conoscere la verità, fidarmi delle persone giuste, capire le cose che mi fanno star bene, mi hanno obbligato ad andare a scuola, a leggere, a scrivere. Adesso mi sento bene. L’importante non sono i soldi, la macchina, la casa. L’importante è amare e farsi amare”. E qui i suoi occhi si fanno lucidi e brillanti come gocce di rugiada.
Lei ha finito il suo programma di reinserimento, previsto dalla nostra legge (art. 18. Decreto legge 286-98 in materia di immigrazione), che garantisce protezione, accesso al sistema sanitario, una scolarizzazione, un permesso di soggiorno, un contratto di lavoro per motivi umanitari o un rimpatrio assistito e vorrebbe che altre donne ancora «prigioniere del cerchio della tratta» riescano a farlo.
Uscire dalla schiavitù è possibile
In Italia uscire da queste schiavitù con dignità e coraggio è possibile. È una questione umanitaria, sicuramente un’oasi di felicità nel deserto di un traffico criminale internazionale e locale che alimenta crimini, violenze, lacrime e dolore e porta con sé altri traffici. Servono i mezzi, i fondi per combatterlo, i programmi a lungo termine. Tagliare i fondi annuali per la tratta da 18 Milioni di Euro a 2 Milioni ed aumentare la spesa per la creazioni di altri due centri Cie non serve. Serve un cambiamento nel mondo di pensare nei Tribunali, tra le forze dell’ordine, nei centri di accoglienza (Cie)- dicono le operatrici del centro. «Volevo cantare e fare la ballerina- racconta – ma non ho potuto a causa della mia malattia. Ero pronta. Ora il mio sogno più bello è di stare bene qui e respirare».
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