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Il futuro è adesso

Clima La generazione che si affaccia alla vita ora ha capito che con la nostra insipienza e la nostra inerzia le stiamo preparando un vero inferno

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 1 marzo 2019

Venerdì 15 marzo milioni e milioni di studenti e studentesse, in decine di migliaia di scuole di tutto il mondo, faranno sciopero e riempiranno le strade di cortei. Ad essi si uniranno anche molte altre cittadine e cittadini che ne condividono rabbia e obiettivi. La rabbia è di chi si vede rubato il futuro dall’inerzia e dalla complicità delle classi dirigenti di tutti i paesi del mondo, e soprattutto dai «signori della Terra»: quelli che gestiscono economia e finanza a spese del nostro pianeta e di chi lo abita. L’obiettivo è quello di far mettere la lotta contro i cambiamenti climatici al centro dell’agenda di tutti i centri di potere, dai governi nazionali alle istituzioni internazionali, dalle municipalità alle associazioni imprenditoriali, dai sindacati alle cosiddette “forze politiche”.

È questo obiettivo quello che, per ora, ha spinto migliaia di giovani a disertare le lezioni per rispondere all’appello lanciato da Greta Thunberg, la studentessa svedese che, decidendo di andare in piazza invece che a scuola ogni venerdì (o giovedì come in Belgio), ha cominciato a smuovere molte coscienze: per spingerle a salvaguardare condizioni di esistenza e convivenza decenti non più solo, come si ripete nelle giaculatorie ufficiali, per «le future generazioni». No. Già per la generazione che si affaccia alla vita ora e che ha capito che con la nostra insipienza e la nostra inerzia le stiamo preparando un vero inferno. Da cui molti sono già stati inghiottiti: non si capirebbero altrimenti origini e dimensioni delle migrazioni in corso, che è ormai l’unico problema che preoccupa governi e forze politiche di mezzo mondo, senza capire che si tratta di un effetto, non di una causa.

Mai uno scontro generazionale si è prospettato più radicale. Se questo movimento di giovani continuerà a crescere in dimensioni, radicalità e capacità di articolarsi in programmi e iniziative, come è giusto e probabile che sia, sarà esso, e non le forze politiche “di opposizione”, che continuano a rimestare sigle, personaggi e programmi, a invertire e rovesciare le tendenze in atto che stanno precipitando il mondo in un abisso di nazionalismi, razzismi, cinismo, ignoranza e rassegnazione. Una deriva che non può essere contrastata solo a livello nazionale, e nemmeno solo a livello europeo ma che ha bisogno del mondo intero come palcoscenico: quello che il movimento messo in moto da Greta Thunberg sta conquistando.

Per ora questa “insorgenza” non ha ancora un programma che non sia la mera denuncia. Denuncia che ha riscontri precisi in coloro, soprattutto scienziati, ma anche “militanti” ambientalisti (non tutti; e nemmeno la maggioranza) che si adoperano da decenni per far capire la gravità del problema a governi, media, imprenditori, manager e, soprattutto, a una parte di “opinione pubblica”, quella raggiungibile attraverso canali associativi, perché la maggioranza dei cittadini, grazie a un vero e proprio tradimento degli addetti all’informazione, è stata spinta a ignorarla, sottovalutarla, dimenticarla.

Ma se cause e dinamiche dei cambiamenti climatici sono chiare e accessibili a chiunque se ne voglia informare, le risposte da dare sono ancora avvolte nella nebbia. Perché non c’è solo da abbandonare il più presto possibile tutti i combustibili fossili e passare alle fonti rinnovabili. Quel cambio di rotta – lo ha spiegato Naomi Klein nel suo libro Una rivoluzione ci salverà – richiede una dislocazione radicale del potere dai centri di comando attuali alle comunità, in tutti i principali settori della produzione e della gestione del territorio. Forme di autogoverno ancora in gran parte da costruire o ricostituire, una democratizzazione di tutte le istituzioni, non solo pubbliche, ma anche private: imprese, corporation, finanza; per lo meno quelle al di sopra di una certa soglia dimensionale. Per questo è inutile aspettare la green economy e prospettare la conversione ecologica come un business. Se lo fosse, o lo potesse essere, sarebbe già avvenuta.

Il problema è il “come?”. Come tradurre in programmi, progetti, realizzazioni e gestioni democratiche le indicazioni che derivano dalla dimostrata insostenibilità del modo attuale di condurre gli affari sia economici che di governo? Qui, con la lodevole eccezione di pochi tecnici che vi si cimentano e di moltissime associazioni e comitati che hanno sviluppato esperienze esemplari, soprattutto in campo agricolo e alimentare, gran pare del lavoro è ancora tutto da fare. Ma da oggi si può cercare di farlo, in modo concreto, qui e ora, in un confronto serrato con le giovani generazioni che hanno compreso l’importanza del problema.

Questo dà la misura della distanza della “politica”, sia di governo che di opposizione, dai problemi che la nascita di questo movimento mette all’ordine del giorno. Cosa ha a che fare questa insorgenza con lo schieramento compatto di partiti, giornalisti, industriali, sindacati, ministri e portaborse che invece di interessarsi di Greta Thunberg si sono messi al seguito delle sette madamine di Torino per spiegarci che dal tunnel del Tav Torino-Lione (che forse entrerà in funzione tra quindici anni, o forse mai) dipende il futuro della nazione, dello “sviluppo”, dell’ambiente, del benessere? C’è forse qualcosa che possa mostrare meglio di questa caduta in un delirio collettivo la distanza che separa l’agenda delle nuove generazioni, e la sua impellenza, dall’ottusità di quelle vecchie? Quelle che stanno trascinando tutti e tutto verso il baratro ambientale, facendolo comunque precedere o accompagnare da un baratro non meno devastante di identitarismo e di razzismo, anche se malamente mascherato?

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