Internazionale

Il fuoco a Gaza non cessa, il veto Usa è «complice del genocidio»

Il fuoco a Gaza non cessa, il veto Usa è «complice del genocidio»L’ambasciatrice Usa all’Onu Linda Thomas-Greenfield al momento del voto contrario al Consiglio di sicurezza dell'Onu – Ap

Le reazioni all'impasse al Consiglio di sicurezza dell'Onu Per Pechino è un «via libera a proseguire il massacro», per l'ano «luce verde all'attacco su Rafah». Stessa linea di fronte al tribunale dell’Aja, la Casa bianca fa scudo: «L’occupazione israeliana non è illegale»

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 22 febbraio 2024

Non è passato inosservato l’ultimo veto statunitense su Gaza al Consiglio di sicurezza, che martedì ha visto come vittima di turno una bozza di risoluzione algerina aspirante a un «cessate il fuoco umanitario immediato».

Per Abu Mazen è stato come dare a Israele «luce verde per andare avanti con l’aggressione e il sanguinoso assalto su Rafah». La morale, rincara l’ufficio di presidenza dell’Autorità nazionale palestinese, è che Washington è «complice del genocidio». Che la condotta «deludente» degli Usa equivalga a un «via libera al proseguimento del massacro» lo dice anche la Cina. Il veto, ha detto ieri la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning, «spinge il conflitto in una situazione ancora più pericolosa». D’accordo, dal suo pulpito, la Russia.

LA GIORDANIA parla di «fallimento della comunità internazionale», l’Iran di «catastrofe diplomatica del secolo», l’Egitto di «vergognoso precedente nella storia del Consiglio di Sicurezza nella gestione dei conflitti armati e delle guerre». L’ambasciatore di Algeri all’Onu aveva già detto tutto prima della votazione di martedì: in caso di veto trionferanno «violenza e instabilità». E delusione è stata ovviamente espressa dai tredici membri del Consiglio che la risoluzione algerina l’avevano votata, con in testa i rappresentanti di Francia e Norvegia.

Quanto a Londra, l’astensione viene spiegata con le stesse motivazioni degli Usa: niente panico, non bisogna agire con la fretta perché si otterrebbe solo una pace instabile. Meglio nessuna pace? È quel tipo di «inazione che implica direttamente la perdita di vite innocenti», ha commentato ieri il ministro degli Esteri brasiliano Mauro Vieira, parlando dell’«inaccettabile paralisi» di un Consiglio di sicurezza che anche i sauditi hanno definito in profonda crisi di credibilità, assolutamente «da riformare affinché svolga le sue responsabilità nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale senza doppi standard».

Arabia Saudita e Russia in versione “anime belle” sono tra i paesi che hanno ricordato l’altra escalation, la più che grave crisi umanitaria in cui versa la Striscia. Realtà che in effetti stride con la melina della Casa bianca.

GLI STATI UNITI HANNO IN TASCA una risoluzione alternativa a quella bloccata martedì, si è detto, che tiene in debito conto la questione degli ostaggi e riafferma il negoziato come unico strumento utile per arrivare alla pace e (idealmente) alla soluzione dei due stati. Non si può essere «ciechi di fronte alla realtà della situazione sul terreno» dice Linda Thomas-Greenfield, la rappresentante Usa all’Onu. Che allude a un canale diplomatico aperto, una trattativa che ha come primo scopo un accordo per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, processo che un ok alla risoluzione algerina avrebbe a suo dire inficiato .

Anche all’Aja, per la terza giornata del dibattimento presso la Corte internazionale di giustizia sull’occupazione israeliana, che vede sfilare i rappresentanti di 52 paesi e di tre organizzazioni internazionali, gli Stati Uniti hanno concesso una sorta di bis: «La Corte non dovrebbe stabilire legalmente il ritiro immediato e senza condizioni delle forze israeliane da Cisgiordania e Gerusalemme est», è il “veto” posto in questo caso all’Aja dal consulente legale del Dipartimento di stato Richard Visek.

Quindi il parere della Corte, ancorché consultivo, non è richiesto. Se non addirittura sgradito perché, anche qui, inquinerebbe la via negoziale con cui si vorrebbe resuscitare lo spirito di Oslo – terra in cambio di pace e la soluzione a due stati che piace anche a Mosca – senza intaccare il diritto di Israele a perseguire con i mezzi che ritiene più idonei la sua «sicurezza reale».

PER IL RESTO, DOPO I CONTRIBUTI “titolati” di Sudafrica e Algeria, nella seconda giornata, ieri ad eccezione delle Isole Fiji e appunto degli Usa – indicati senza mai nominarli dalla rappresentante egiziana Jamila Moussa come «unico paese che cerca di giustificare le azioni di Israele» – tutti ieri hanno concordato sul carattere prolungato, illegale e disumano dell’occupazione, hanno condannato l’acquisizione di territori e beni palestinesi con la forza, gli arresti indiscriminati e gli abusi carcerari sostenuti dal doppio standard del sistema giudiziario, espresso preoccupazione per la violenza senza freni dei coloni e la perenne sfida al diritto internazionale di cui il massacro in corso a Gaza è solo l’ultimo esempio. Il più sanguinoso.

LA FRANCIA HA IPOTIZZATO un indennizzo per i palestinesi che hanno sofferto gli effetti dell’occupazione militare e dell’espansione fuori controllo degli insediamenti illegali, annunciando sanzioni per 28 coloni israeliani responsabili di violenze e violazioni dei diritti umani.

Intanto il tempo scorre. «La corte – ha detto ieri ai giudici dell’Aja la diplomatica cubana Anayansi Rodriguez Camejo – non dovrebbe aspettare che un intero popolo venga sterminato per affrontare la questione».

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