Il Fico, nostro Fort Apache
Bar Vicino all'albero due tavolini tondi con le gambe cromate e le sedie di metallo e formica
Bar Vicino all'albero due tavolini tondi con le gambe cromate e le sedie di metallo e formica
Erano gli anni settanta e arrivai a piazza del Fico grazie ad un amico che mi affittò il suo mini appartamento con una stanza che dava sulla piazza, cucinino striminzito e bagno minuscolo.
Ma a quei tempi non si viveva in casa ma nei bar.
Dalle facciate dei palazzi pendevano ancora ragnatele di fili del telefono che si intrecciavano con quelli della TV. Il nasone della piazza gorgogliava giorno e notte e serviva la sera per riempire le siringhe dei poveri ragazzi incastrati dall’eroina e al mattino a rinfrescare le verdure quando si materializzavano quattro banchi di frutta e verdura nel minuscolo mercatino impreziosito dal «vignarolo», che pareva un elfo dei boschi e portava i suoi frutti dalla Sabina giurando alle poche giovani biologiche ante litteram, che gli ronzavano intorno con la borsa regolarmente di juta, che lui, di porcherie nei suoi campi non ne metteva.
Il Bar del Fico era un’istituzione per noi abitanti di quell’angolo di Roma da Rugantino. Gli appuntamenti si davano al Fico o da Francesco, verace trattoria romana che si affacciava sulla piazza e dove si incontrava Ruggero Orlando, Sergio Vecchio al banco dei singles, grande invenzione prima di Philip Stark.
Il Bar del Fico era la nostra storia, di noi che qui ci incontravamo per il caffè le cui varianti si attestavano in caffè con tazza o al vetro, niente fantasticherie di marocchino, scekerato o altro. Il cappuccino era quello classico con un monte di schiuma. Ancora con gli occhi cipigliosi ci si incontrava, qualche resoconto sulla notte o anteprime per la serata. Il fico lo aveva piantato Alessio, il fratello di Piero. Un gigantesco omone dagli occhi azzurrissimi e trasparenti con grandi mani e modi gentili. All’inizio quando mi trasferii ne avevo soggezione e forse anche un po’ paura, quegli occhi che si posavano nei miei, erano perforanti e liquidi allo stesso tempo, occhi di gatto, ma anche di bambino stupito. Fuori, vicino al fico due tavolini tondi, quelli con le gambe cromate e le sedie di metallo e formica. Finito il rito del cappuccino in quella fase di mattina lassa compariva Piero un po’ stropicciato che usciva dal retro misterioso e privato, che destava la mia curiosità, con in mano la scacchiera per interminabili partite a scacchi con gli abituè. A fianco della scacchiera l’imperdibile segna tempo per le sfide veloci. I due fratelli si davano il cambio, di giorno Alessio e alla sera Piero per l’aperitivo fatto di campari e patatine, ben lontano dal rito degli stuzzichini e spritz milanesi di nuova generazione.
Ogni tanto ci passava anche Victor Cavallo per il suo giro di campari e allora era una musica per le orecchie. Victor sapeva trasformare la banalità del vivere in poesia dolce amara. Più che scapigliati eravamo stropicciati, perfettamente inseriti in quella realtà fuori dal tempo, o forse dentro un tempo anomalo, una sorta di parentesi chiusa, dove era la parola a dominare e l’immagine di cui discutere erano solo i film e le partite di calcio. Piazza del Fico e il suo bar era il nostro Fort Apache.
Il lunedì era l’apoteosi della Roma, niente Laziali da quelle parti, dominava la sovrana. E si leggevano le righe di Victor sul la Roma. Mi viene in mente un’immagine che m’è rimasta negli occhi e che fa ben raffigura la tipologia dei vecchi abitanti del quartiere.
Nell’edifico del bar del fico al primo piano con finestre senza tende, nei giorni di freddo invernale, vedevo camminare avanti e indietro come un automa, la figura di un uomo con cappotto e cappello. Sembrava uscito da un film di De Sica in bianco e nero.
Poco prima di mezzogiorno, ci andavo al Fico per il tramezzino, succoso, grondante di maionese, tonno in scatola e fette di pomodoro. A me milanese il tramezzino mi è sempre piaciuto, una vorace trasgressione che si scioglie in bocca, un’invenzione sublime e variegata della gastronomia romana ovviamente accompagnato dal peroncino. Spesso era anche il mio unico pasto. Qualche volta ci incontravo, sempre elegantissimo, Ruggero Orlando che abitava lì vicino e allora mi regalava qualche AIKU di cui era un finissimo autore, mi regalò anche una sua bellissima raccolta. Certe volte mi facevo raccontare della sua New York, che chiamava ancora Nuova York.
A un certo punto comparve Claudine ex moglie di Victor, molto simpatica, arguta e charmant con la sua erre arrotolata e le parole francesi buttate qui o là come spruzzate di fragranze parigine.
Con piglio e capacità prese in mano la carente gastronomia sfornando deliziose crocchette e altre delizie, ma purtroppo durò l’espace d’un matin.
Il pomeriggio era abitato solo da Piero e dai suoi avversari agli scacchi in lunghe ponderate partite con apprezzamenti e discussioni sui romanzi letti nelle notti insonni.
La sera era un gran rianimarsi di nuovo per prosecchi e campari a discutere di cinema, di poesia, di amori e di facezia. Ma eravamo una clientela diversa dal bar della Pace, più sofisticato e alla moda. Noi del Fico eravamo un miscuglio di residenti, di romani veraci, trasportatori di robivecchi consumati da alcol e cocaina e giovani pittori, attori, scrittori, registi o aspiranti tali, chiamati a Roma dal fascino del cinema e approdati in quell’angolo di mondo denso di sogni, di quotidianità, di poeti rimasti ancorati al bar del Fico, che restava aperto fino a notte inoltrata con Piero e il suo vino rosso. Ricordo una notte tarda di capodanno, quando rientrando col mio fidanzato vidi la serranda metà abbassata, feci capolino e Piero ci invitò a bere con Gregory Corso, così facemmo l’alba col gran vecchio della beat generation.
Visualizzo il trasloco di un divano immenso di cui non ricordo più se volevo liberarmene o accettarlo. Grondante di sudore il giovane sceneggiatore Umberto Contarello appena arrivato da Padova, se lo caricò sulle spalle robuste smadonnando col sorriso. Taylor Mead, l’ultimo dei poeti beat, si aggirava con gradazione alcolica consistente suonando ripetutamente al mio campanello per chiedermi favori in nome di una curiosa e improbabile alleanza dovuta alla frequentazione della Factory di Andy Warhol.
Qualche notte guardando la piazza illuminata dalla luna vedevo uscire furtivamente da quel misterioso retro di Piero qualche donna un po’ scarmigliata con gli occhi ancora appagati dal piacere. Era Piero l’incantatore, uomo colto e gentile, un po’ sarcastico e distaccato capace di prendere la vita come una partita a scacchi.
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