Manca poco più di mese ormai all’inizio delle primarie che in Iowa daranno il via ufficiale all’iter elettorale verso le presidenziali del prossimo novembre. In realtà il paese è già da mesi in modalità elettorale, ed in piena disfunzione, sullo sfondo di quella che si profila come una riedizione dello scontro Trump-Biden e quindi la riproposta dell’irrisolto nodo trumpista. Da parte repubblicana le primarie sono mera rappresentazione di un’effettiva selezione, con una manciata di pretendenti distaccati di oltre 45 punti dal candidato in pectore.  Quest’ultimo, Trump, non si degna di presentarsi ai dibattiti che il partito si ostina a convocare ed in cui i “candidati” si azzuffano per un simbolico secondo posto. Nei sondaggi, il presunto sfidante principale, il governatore ultraconservatore della Florida Ron DeSantis, a malapena sfiora il 13% dei consensi (contro il 60% di Trump). Nel frattempo, fra i democratici l’81mo compleanno di Joe Biden non ha che acuito il disagio palpabile per il candidato più anziano di sempre, afflitto, per di più, da indici di gradimento cronicamente anemici.

Su questo sfondo si è tenuto giovedì un dibattito collaterale fra Ron DeSantis e la sua controparte in California, Gavin Newsom. Il governatore californiano è reputato un principale esponente della new generation di leader democratici ed è stato da molti gettonato come possibile candidato di ripiego nell’evento di un ritiro di Biden. Il confronto è stato promosso dalla Fox come «scontro determinante» fra America rossa e blu, una specie di incontro fra mediomassimi per risolvere una buona volta le questioni che hanno diviso la nazione in campi trincerati ed irriconciliabili, una polarizzazione strategicamente fomentata, si capisce, dalla demagogia populista del trumpismo.

Oltre allo show confezionato per ottimizzare l’audience dell’emittente conservatrice, il sottotesto ineludibile era quello di inscenare un dibattito fra i potenziali candidati che, in  un universo parallelo, molti americani, più o meno segretamente, preferirebbero alla campagna geriatrica che sembra inevitabile. Da un lato il governatore della “Left Coast”, lo stato più popoloso e ricco, da solo quinta economia mondiale, terra di Silicon Valley e Hollywood; dall’altro, il leader che ha fatto della Florida laboratorio di democratura liberista e illiberale, terra di crociate contro l’aborto e diritti Lgbtq, fautore di una campagna maccartista che ha epurato oltre 1000 testi «pornografici e comunisti» dalle biblioteche scolastiche.

Un duello omerico, dunque, per regolare il conflitto attraverso lo scontro fra due campioni, e riaffermare, en passant, lo stato della politica nella società dello spettacolo. Davanti alle bandiere dei rispettivi stati, issate come stendardi di contrada, i due si sono parlati addosso per quasi due ore senza lesinare i reciproci attacchi personali sotto lo sguardo compiaciuto di Sean Hannity, mezzobusto di punta della rete Murdoch e sponsor dell’affare. «I californiani non ce la fanno più. Scappano tutti dalla vostra criminalità, in Florida ho incontrato anche tuo suocero!» ha urlato DeSantis in uno scambio tipo, in cui accusava Newsom di «indottrinare» le scolaresche con propaganda marxista. Quest’ultimo ha imputato al collega le deportazioni di clandestini verso città liberal e la «militarizzazione dei rancori» come strumento demagogico.

Malgrado questa verità, ed un evidente vantaggio telegenico, Newsom non ha tuttavia mostrato di avere una soluzione per il problema dialettico cui le sinistre stentano a trovare una risposta su entrambe le sponde dell’Atlantico: una formulazione politica di questioni complesse in un mondo dove è acquisita ormai la semplificazione viscerale. Replicare agli attacchi della destra con uguale veemenza non è sembrato particolarmente e efficace contro la tattica classica imperniata sull’escalation della paura ed il pensiero unico, manicheo e securitario. In questo senso le orde di immigrati e senzatetto sui marciapiedi e gli untori “gender” nelle elementari ripetutamente additati da DeSantis, hanno certamente avuto presa maggiore sul target preposto che non le soluzioni ragionate del progressista. Così anche i terroristi assetati di sangue che certo si «annidano» fra i profughi invitati da Biden ad attraversare il «confine spalancato».

La versione DeSantis non è stata originale, una copia sbiadita del copione sovranista e recriminatorio di Trump, ma nella sostanza ha racchiuso i talking points, triti quanto efficaci, a cui si affidano le destre per aggregare un consenso che poco bada a dati e governance ma molto tiene alla rivalsa sugli avversari – owning the libs, nella definizione inglese di «fargliela pagare alla sinistra». Eppure il dibattito ha evidenziato soprattutto, ancora una volta, la difficoltà di ribattere efficacemente, all’etos aggressivo e primordiale delle destre, ad esempio, una difesa della giustizia sociale e dell’empatia come necessarie linee politiche.

Fin quando non cambieranno d i termini di questa dialettica, si profila come plausibile lo scenario apocalittico delineato questa settimana da Robert Kagan sul Washington Post. Nel lungo editoriale titolato La dittatura Trump è sempre più inevitabile, Kagan enumera gli elementi che rendono fin troppo probabile una riconquista del potere da parte dell’ex presidente golpista. Fra questi la manifesta incapacità delle istituzioni di contenerlo (ad opposizione e Congresso, rischiano di aggiungersi i magistrati che lo stanno processando), la fedeltà cieca di una base non maggioritaria ma compatta abbastanza per prevalere su una sinistra al solito fratturata, e la carica emozionale ed irrazionale che promette di carburare al sua ricandidatura fuori tempo massimo. «Come per una imbarcazione alla deriva verso una cascata», nell’analogia di Kaplan, alla democrazia americana, sta per scadere per il tempo utile per evitare l’inevitabile.