Il corteo di Roma: «Ocalan e Rojava isolati, così non ci sarà mai democrazia»
Kurdistan Ieri in migliaia alla manifestazione nazionale per la liberazione di Apo e dei prigionieri politici in Turchia. In prima fila i ragazzi italiani ex Ypg minacciati dalla misura di sorveglianza speciale. Parla Hatip Dicle, ex negoziatore nel 2015 tra Pkk e Ankara: «Erdogan pretese l’ingresso delle Ypg nell’Els. E la pace fallì»
Kurdistan Ieri in migliaia alla manifestazione nazionale per la liberazione di Apo e dei prigionieri politici in Turchia. In prima fila i ragazzi italiani ex Ypg minacciati dalla misura di sorveglianza speciale. Parla Hatip Dicle, ex negoziatore nel 2015 tra Pkk e Ankara: «Erdogan pretese l’ingresso delle Ypg nell’Els. E la pace fallì»
Un’umanità variegata ha camminato ieri nel centro di Roma tra bandiere del Kurdistan, del Pkk, delle unità di difesa di Rojava Ypg/Ypj. Vessilli con lo sfondo giallo e il volto di Abdullah Ocalan hanno attraversato l’intero corteo, organizzato nella capitale – come ogni anno nell’anniversario del rapimento del leader del Pkk – da Uiki, Rete Kurdistan e Comunità curda in Italia.
C’erano donne e uomini, famiglie, centri sociali, palestre popolari, Non una di meno, c’erano Cobas, Cgil e Fiom, Arci e Anpi, c’erano le associazioni pro-palestinesi. E i partiti, Pap, Rifondazione e Altra Europa.
Cinquemila persone in un giorno particolare, i 20 anni dall’inizio della detenzione di Apo. In prima fila, ad aprire il corteo insieme ai rappresentanti del partito di sinistra turco Hdp, lo striscione con lo slogan della manifestazione («Rompere l’isolamento, distruggere il fascismo») era retto dai ragazzi italiani che hanno combattuto con le Ypg/Ypj in Rojava e hanno raccontato la rivoluzione in corso e che oggi sono minacciati dalla misura di sorveglianza speciale richiesta dalla procura di Torino. Appuntamento con la seconda udienza per Eddi, Davide, Paolo, Jacopo e Fabrizio il 25 marzo.
L’isolamento contro cui ieri si protestava a Roma, in contemporanea con Strasburgo dove sono arrivate le marce partite da diverse città europee, non è solo quello che Ocalan sconta da due decenni: «La detenzione di Ocalan diventa un isolamento delle richieste democratiche che arrivano dal Medio Oriente – dice al manifesto Ozlem Tanrikulu, di Uiki – Un isolamento del sistema costruito a Rojava e del modello del confederalismo democratico. Abbiamo perso 20 anni per costruire una soluzione democratica per tutta la regione. Ma la resistenza aumenta, gli scioperi della fame continuano: Leyla Guven ha raggiunto i 101 giorni, Nasir Yagiz 84, i 14 attivisti a Strasburgo hanno superato i 60 giorni».
La prigionia di Ocalan diviene un paradigma, lo specchio di un silenzio che copre quanto è in corso nel cuore del Medio Oriente. Ne è convinto Carmine Malinconico, membro del team legale che seguì Ocalan nei suoi mesi in Italia, tra il 1998 e il 1999: «C’è un parallelismo netto tra la vicenda Ocalan e la vicenda Mandela – ci diceva ieri – In Sudafrica tutti sapevano che l’apartheid non sarebbe mai finita senza la liberazione di Mandela. E infatti la liberazione del Sudafrica è stata sancita dalla liberazione di Mandela. Lo stesso vale per Ocalan: non ci sarà pace in Turchia e in Medio Oriente se Ocalan non sarà liberato, perché Apo non rappresenta se stesso o il popolo curdo, ma un’opzione democratica e di convivenza pacifica».
Come quella sperimentata con successo a Rojava, costantemente sotto minaccia turca. Proprio il nord della Siria è stata la ragione del fallimento del negoziato tra Pkk e Turchia nel 2015. Ce lo racconta Hatip Dicle, storico leader curdo ieri a Roma, ex prigioniero politico in Turchia (tra il 1994 e il 2004 e tra il 2009 e il 2014), ai vertici dell’Hdp dopo essere stato parlamentare del Bdp. Dicle, dopo il rilascio nel 2014, ha fatto parte della delegazione che nell’isola-prigione di Imrali, accanto ad Ocalan, ha negoziato la pace con Ankara, rappresentata dai servizi segreti del Mit, il ministro degli interni e l’allora premier Davutoglu.
Quando ha visto Ocalan per l’ultima volta?
A fine marzo 2015. Il 5 aprile Erdogan ha messo fine ai negoziati. Da quel momento è iniziato l’isolamento totale di Apo.
Perché i negoziati fallirono?
L’obiettivo di Ocalan era ed è il nostro, trovare una soluzione. All’epoca la volontà c’era e c’erano delle aspettative e dunque anche uno sforzo politico per concretizzare quella possibilità di pace. Abbiamo capito solo dopo che Erdogan ci stava prendendo in giro. Un argomento molto trattato durante gli incontri era l’Isis: da Qandil il Kck ci inviava le prove dei rapporti tra Stato turco e Isis ma i negoziatori negavano. Qui stava la loro pre-condizione essenziale: la Turchia voleva che Ocalan imponesse alle unità Ypg e Ypj di Rojava di entrare nell’Esercito libero siriano (opposizione al governo di Damasco, ndr) e di collaborare con i jihadisti. Ocalan non accettò: Rojava porta avanti un progetto diverso, una terza via che non può far parte di simili entità. Posso dire che Rojava è stata la causa principale del fallimento di negoziati durati due anni e mezzo.
Cosa è successo a voi negoziatori dopo la fine delle trattative?
Tutti e cinque siamo stati messi sotto pressione. Io sono in esilio in Germania, sono fuggito per non essere arrestato come accaduto a due dei tre membri dell’Hdp; solo la terza è ancora libera, l’attuale co-presidente Pervin Buldan. Anche la rappresentante delle donne è in esilio.
Come stava Ocalan?
In quel periodo gli avevano dato accesso a tv e giornali. Con la fine dei negoziati e l’isolamento totale, sono stati banditi. Da quel momento non ha più avuto visite di legali e familiari. Gli viene negato ogni diritto.
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