L’uscita del primo numero del manifesto non passò inosservata. I più importanti giornalisti dell’epoca accolsero l’evento con commenti positivi. E fu una sorpresa, dal momento che quasi nessuno di loro aveva fatto proprie, neanche in piccola parte, le idee politiche del quotidiano.

Anzi. Tutti apprezzavano il coraggio dell’iniziativa, ma subito si sentivano in dovere di prendere le distanze dai contenuti. Non era perciò scontato che lo elogiassero pressoché all’unanimità.

Vittorio Gorresio ne parlò come di un foglio «intellettualmente raffinato» che, indipendentemente da opinioni e orientamenti che si potevano «non condividere» (questa fu la formula di rito che usarono in molti), rappresentava «per i comunisti» una «coscienza critica» nient’affatto «facile da mettere a tacere».

Alberto Ronchey sostenne che eravamo in presenza di un giornale «particolarmente ben fatto» nel quale si potevano leggere «articoli assai stimolanti» su argomenti «non affrontati altrove».

Eugenio Scalfari ne lodò «l’anticonformismo», «l’impertinenza» e fu forse l’unico ad apprezzarne quantomeno parzialmente i contenuti politici.

Giorgio Bocca scrisse che il manifesto portava nel giornalismo italiano il «dono del dubbio» e stava lì a dimostrare che «tra stenti e fatiche, un giornale senza padrone e senza partito può esistere».

Fu Nello Ajello – nel libro Il lungo addio (Laterza) – a notare quanto fosse stata invece «severa e sprezzante» l’accoglienza del Pci a quello che definì il «quotidiano dei ribelli».

In effetti l’Unità, all’indomani dell’uscita del manifesto, pubblicò un corsivo decisamente maligno di una decina di righe in cui si metteva in risalto l’«ampia pubblicità» che «la televisione diretta dal governo di centro-sinistra» faceva a questo «giornale della ‘sinistra di classe’». Strano, sottolineava l’Unità, che ciò accadesse in occasione della nascita di un giornale che pretendeva di essere «contrario a ogni integrazione nel sistema» (una terminologia, sia detto per inciso, mai adottata, neanche una sola volta, dal manifesto).

Il giorno successivo, l’Unità sosteneva che il nuovo quotidiano si era dato come compito esclusivo quello di «attaccare il Pci, di seminare divisioni, e, possibilmente di sfasciare quel che si può a sinistra». Poi tornava a battere sul tasto del giorno precedente: secondo l’organo del Pci non c’era «da stupirsi del rilievo pubblicitario offerto a rivoluzionari di questa fatta dalla stampa borghese».

Infine, il terzo giorno, l’Unità pubblicò un articoletto brutalmente intitolato: «Chi li paga?». La direzione del manifesto reagì con un esposto alla Federazione della stampa che mise immediatamente a tacere questo genere di polemica.

Si seppe poi che Enrico Berlinguer, all’epoca vice e non ancora segretario del Pci (lo sarebbe diventato l’anno successivo), aveva disapprovato quella caduta di stile del suo giornale. Ricordava perfettamente, Berlinguer, che, due anni prima, nel 1969, Rossana Rossanda – quando ancora nessuno sapeva del proposito – lo aveva avvertito dell’imminente pubblicazione del «Manifesto» rivista. E lo aveva fatto in un colloquio riservato al termine del quale Rossanda gli aveva addirittura promesso di mostrargli in anticipo le bozze del primo numero.

Terminata quella conversazione, ad una precisa domanda di Rossanda («Credi che ci saranno contro di noi azioni disciplinari?»), il vicesegretario aveva risposto in modo netto: «No, questo è fuori discussione».

Rossanda aveva poi mantenuto la promessa e gli aveva inviato i prestampati del primo numero. Berlinguer si era detto sorpreso del fatto che si trattasse di «qualcosa di più di una pubblicazione di studio» e che contenesse «proposte politiche molto precise».

Ma neanche stavolta minacciò sanzioni. Chiese soltanto che ne venisse rinviata la pubblicazione. «Sto partendo per la conferenza di Mosca a sostenere, fra l’altro, le ragioni di Dubcek», le disse, «non fatemi incontrare i sovietici con il peso di questa rivista sulle spalle». Rossanda acconsentì, il fascicolo restò in magazzino e fu mandato in edicola un mese dopo esser stato stampato.

In seguito, le cose andarono diversamente da come aveva detto Berlinguer. Nel novembre del 1969 il «gruppo del manifesto» (oltre a Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli, Lucio Magri, Massimo Caprara, Valentino Parlato, Luciana Castellina) venne «radiato» dal Partito comunista italiano.

Alla vigilia di quell’atto brutale, Berlinguer volle vedere Natoli, presente Paolo Bufalini, per anticipargli il senso di quella decisione. E forse anche il dolore di essere stati costretti a prenderla. I tre uscirono turbati da quell’incontro, soprattutto Berlinguer legato ai dirigenti della rivista (in particolare a Pintor) da un rapporto molto profondo. Ed è anche per quel turbamento di due anni prima che il futuro segretario del Pci non gradì di veder stampate sull’Unità le parole di cui s’è detto.

Successivamente Berlinguer fece in tempo a recuperare il rapporto con Pintor e con i principali protagonisti di quella vicenda. Ed è un peccato che da tempo non sia più in edicola l’Unità che – ne siamo sicuri – proverebbe a risarcire chi ha ancora memoria di quella storia lontana celebrando adeguatamente il cinquantesimo compleanno dell’unico quotidiano comunista ancora presente in edicola.

Paolo Mieli, tra le altre cose, ha diretto La Stampa prima e il Corriere della Sera poi dal 1990 al 2009