Il ciclo del trauma e il sumud resistente
Tremenda vendetta In Palestina la salute mentale comunitaria è da sempre pratica politica
Tremenda vendetta In Palestina la salute mentale comunitaria è da sempre pratica politica
A gennaio, quando il genocidio a Gaza era già entrato in una fase di violenza estrema, la scrittrice palestinese Adania Shibli si interrogava su come avere ancora fiducia nel linguaggio quando esso vi fa soffrire e vi abbandona e che bisogna fare fronte «da soli, e senza voce, alla crudeltà». Raccontava di come non fosse più capace di scrivere, di come fosse ossessionata dall’idea che, forse, non si potesse più scrivere con un linguaggio «mutilato» e «assente». Concludeva chiedendosi se fosse possibile sopportare il «vuoto» causato dall’assenza del linguaggio di fronte a «un dolore senza fondo né fine».
La possibilità, o meno, del linguaggio è anche al centro delle diverse pratiche di salute mentale. Ma cosa significa praticarle sotto occupazione?
VORREMMO proporre una riflessione sul trauma spostando lo sguardo dalla vasta letteratura occidentale che esiste al riguardo e dando voce, al contrario, a psicologh*, psicanalist* e psicoterapeut* in Palestina ancora, volontariamente o meno, poco conosciuti e letti, nonostante l’insegnamento che bisognerebbe trarne visti gli innumerevoli territori coloniali e post-coloniali sui quali il mondo detto occidentale ha esercitato e continua a esercitare, arroganza, dominio e violenza.
La letteratura clinica palestinese ha una grande forza e sensibilità che permette di mantenere una posizione fragile e delicata. Da una parte, da conto dell’urgenza e della sofferenza estrema in cui si trova il popolo palestinese, pur senza cadere nella vittimizzazione o nella patologizzazione dell’individuo; dall’altra, permette di soffermarsi su un aspetto essenziale della società palestinese che, a torto, viene tradotto con la nozione di «resilienza». Noi preferiamo la parola araba. Sumud. La clinica palestinese si pone come una radicale alternativa alle conseguenze nosologiche e terapeutiche del Ptsd (post-traumatic stress disorder) e dell’uso che ne viene fatto da gran parte della psichiatria umanitaria in quello che è diventato «un impero del traumatismo» (Fassin, Rechtman, 2007).
IN UNA RICERCA fondamentale sulla salute mentale nei Territori Occupati (Sheehi, Psychoanalysis Under Occupation, 2022), e mai come oggi attuale, viene sottolineato come il Ptsd non sia in grado di cogliere le specificità di un trauma di cui si può collocare l’inizio, la Nakba del 1948, ma di cui non si può indicare la fine visto che è tuttora in corso. È un trauma che non può essere circoscritto a una determinata temporalità rispetto alla quale si possa dire che esiste un «prima» e un «dopo» l’evento traumatico.
Per i palestinesi il trauma non ha un «post»: è diventato la struttura stessa dell’individuo, e non solo un evento limitato a un preciso momento storico e biograficoSamah Jabr, psicologa
Per la psicologa palestinese Samah Jabr, in Palestina il trauma non ha un «post». È la modalità con cui la Storia e l’occupazione israeliana si ripetono, ed è proprio la ripetizione traumatica che dà luogo a una situazione di stallo, di soffocamento che si esprime e si manifesta attraverso i sintomi. Possiamo cogliere il senso dell’associazione tra trauma e struttura: in Palestina il trauma è diventato la struttura stessa dell’individuo, e non solo un evento limitato a un preciso momento storico e biografico.
LA POPOLAZIONE palestinese reagisce tramite il sumud. Nella sua accezione più generale, sumud indica una pratica psico-sociale che si traduce nella volontà individuale e collettiva di opporsi al dispositivo coloniale d’occupazione. Fa riferimento alle modalità con cui una comunità o un collettivo prende cura dei suoi membri, dei bisogni materiali e del benessere psichico di ciascuno.
A questa definizione se ne aggiunge un’altra, politica. Quest’accezione semantica è emersa durante la Prima Intifada (1987-1993) con la generalizzazione dell’imprigionamento arbitrario e della tortura. Sumud divenne sinonimo di un’opposizione radicale all’occupazione i cui effetti non si manifestano unicamente da un punto di vista territoriale, ma anche da un punto di vista della dimensione psichica e fisica dell’individuo.
Dall’incrocio di queste due accezioni, oggi il sumud indica un’alternativa alla triade depoliticizzazione, patologizzazione e vittimizzazione dell’individuo promulgata dalla psichiatria umanitaria. Tramite il sumud i clinici palestinesi propongono un approccio al trauma facendo uso di un linguaggio che sia in grado di cogliere l’aspetto politico della sofferenza e del dolore pur senza cadere nel rischio di una versione romantica e idealista del tragico e della morte. Il sumud è anche in grado di mantenere l’equilibrio estremamente delicato tra la sofferenza individuale, riletta al proprio percorso biografico, e la sofferenza collettiva, riletta al contesto storico-politico. Tra la storia e la Storia.
I LAVORI della psicologa palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian insistono su come il sumud permetta di fare fronte all’onnipresenza della morte conferendogli un altro volto ma anche un altro ruolo all’interno della società o della comunità. Il sistema coloniale israeliano si esercita anche sui morti e nei cimiteri, impedendo per esempio che i corpi vengano restituiti, e dunque sepolti. Oppure i corpi vengono effettivamente sepolti, ma in cimiteri situati in zone militari a cui le famiglie del defunto non hanno accesso. Una pratica che ha come obiettivo la depersonalizzazione, impedendo che la morte venga ritualizzata e il lutto metabolizzato. Le famiglie cercano di reagire invertendo la logica coloniale che vuole fare del defunto un oggetto senza statuto, senza territorio, senza storia.
L’ESPRESSIONE araba aysh mawt, «vivere la morte», inverte la relazione tra l’assenza e la presenza, tra la vita e la morte, e trasforma il lutto in modalità di sopravvivenza, di riaffermazione della vita a partire dalla morte stessa. Non si tratta di vivere la morte ma di «ridare vita ai morti», e in questo modo di guarire i traumi e le ferite che i morti hanno subito. In un regime coloniale che fa dei palestinesi dei «presenti-assenti», come diceva Elias Sanbar, persino nella loro morte, allora la morte stessa diventa una dimensione, paradossale e dolorosa, di affermazione di una presenza e del rifiuto di un dispositivo che impedisce ai defunti di vivere la propria morte.
In questo senso, il sumud è una modalità etico-politica della soggettività palestinese e si riferisce a una soggettivazione dell’individuo che avviene simultaneamente in quanto vittima e in quanto soggetto (politico) in grado di opporre resistenza al regime coloniale d’occupazione. È una strategia epistemologica che si iscrive al di là della dialettica tra «oppressione» e «liberazione». Lo statuto di «vittima» e la «soggettivazione» non si escludono l’un l’altro, al contrario, sono pensati a partire dalla loro stessa articolazione. Per i clinici palestinesi il sumud è una strategia radicalmente decoloniale che non può essere ridotta alla resilienza. Si situa ben al di là della resilienza e incarna una modalità di reazione e difesa, psichica e fisica, a un dispositivo coloniale il cui potere si esercita sia sui vivi che sui morti e il cui obiettivo è l’annientamento, la sparizione di tutto un popolo.
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LA CLINICA palestinese ci permette di riflettere su come le politiche di salute mentale costituiscano la base stessa per una contestazione delle politiche coloniali d’occupazione. Ma anche sugli effetti psichici su un’intera popolazione di diversi strati di traumi che non hanno smesso di accumularsi e di trasmettersi da generazione a generazione a partire dal 1948 e di cui il genocidio in corso a Gaza e le violenze senza precedenti in Cisgiordania sono l’apice di una violenza estrema e senza fine alla quale il sistema neo (o meglio necro) liberale occidentale, intrinsecamente coloniale, non vuole e non è capace di rinunciare.
Ricercatrice in filosofia politica alla Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis.
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