Di catcalling si scrive poco e si indaga ancora meno, motivo per cui qualcuno potrebbe non averne mai sentito parlare. Eppure il fenomeno interessa più della metà delle donne e definisce un tipo specifico di molestie di cui queste sono vittime: prevalentemente verbali e provenienti da perfetti sconosciuti in luoghi pubblici. Quindi apprezzamenti e commenti non richiesti, fischi, pedinamenti e atti di esibizionismo, rientrano tutti in questa categoria. La difficoltà nel riconoscerlo come una forma di violenza – non solo tra gli uomini, ma anche per una donna su tre – fa sì che le misure di prevenzione e contrasto siano inefficaci, se non del tutto inesistenti.

Le giovani adolescenti, quelle che rientrano oggi nella Generazione Z, sono più ricettive verso questo tipo molestie, più subdole e meno riconoscibili di una violenza fisica, e lo condannano con maggiore fermezza rispetto alle altre fasce d’età. Ne sono, poi, le principali interessate, dato che la maggior parte delle vittime – il 79% – subisce catcalling quando ha meno di 17 anni. Si tratta di un dato già vecchio – risalente al 2015 e frutto di un’indagine del gruppo statunitense anti-molestie Hollaback!, che ha raccolto le risposte di un campione di donne italiane – perché, come detto, le ricerche in materia sono poche e sporadiche.

Per questo la testimonianza diretta di un gruppo di ragazze, che si ritrovano a dover fare i conti con una violenza sistemica nei luoghi che frequentano ogni giorno, può servire a compensare, in parte, la scarsità dei numeri a disposizione. Vincendo diversi dubbi e una lieve resistenza iniziale, il manifesto ha parlato con un gruppo di otto liceali tra i 14 e i 18 anni, incontrandole nell’appartamento di una di loro in un quartiere centrale di Roma. Il campione è di certo poco rappresentativo di un’adolescente media romana, ma può esserlo, in piccolo, di una di estrazione borghese, studentessa in uno degli istituti più rinomati della città, politicamente più o meno attiva nei collettivi studenteschi. La violenza di genere, però, è democratica e non conosce differenze di quartiere.

Le storie che ci hanno raccontato potrebbero essere uguali a quelle di tante altre. Sconosciuti che fanno apprezzamenti volgari, che pedinano per strada, che sull’autobus approfittano della calca per cercare un contatto fisico. Storie di violenza ordinaria, spesso erroneamente catalogate come apprezzamenti – basta fare un giro sulla pagina instagram sonosolocomplimenti per trovarne centinaia –, nonostante il confine sia chiaramente delineato. Le ragazze con cui abbiamo parlato sono tutte consapevoli di queste dinamiche e del diritto, ingiustamente negato, di girare per strada senza il timore di essere importunate. «Io non tollero più nulla. Non posso sempre preoccuparmi di capire se una persona sta agendo in buona fede oppure no» dice una di loro. In poco tempo la conversazione diventa uno sfogo collettivo, quello di ragazze che non hanno spazi, se non tra amiche, per denunciare una violenza generalmente sottostimata. Dato che si tratta di minorenni, per riferirci a loro useremo nomi di fantasia.

«Ho sempre avuto ansia nell’uscire di casa da sola, ma non riuscivo a capivo perché. Quest’anno ho iniziato ad accorgermi di comportamenti nelle persone che incontro che non mi fanno sentire al sicuro». Lo racconta Valeria, che a 14 anni è già costretta a sentire il peso di sguardi e commenti indesiderati. «Non capisco perché a uno sconosciuto possa venire in mente che sia lecito e mi faccia piacere ricevere complimenti. – dice – I commenti sul mio fisico non mi fanno stare meglio, mi mettono solo a disagio. Ma le persone pensano sia normale farli». La crescente sensibilizzazione delle nuove generazioni sul tema non è ancora sufficiente a estinguere comportamenti violenti troppo radicati in tutte le fasce d’età. «I ragazzi della nostra età fanno spesso catcalling quando si trovano in gruppo – racconta Francesca –. Sanno perfettamente cos’è ma non gli danno il giusto peso».

La sera è il momento peggiore, quando tornando a casa la scelta si divide tra passare davanti a locali pieni di ragazzi, con il rischio di subire catcalling, e optare per una strada buia. Se la via da percorrere è percepita come particolarmente pericolosa «meglio non uscire nemmeno. Qualche giorno fa dovevo raggiungere delle amiche – racconta Martina – ma la fermata della metro era lontana e avrei dovuto aspettare lì da sola. La sera prima però una ragazza era stata stuprata proprio nei dintorni, così ho deciso di rinunciare a una cosa che avrei voluto fare». Anche il 55% delle donne che Hollaback! ha intervistato nel 2014 dichiara di fare spesso la stessa scelta, il 73% preferisce persino evitare del tutto le zone dove ha già subito catcalling.

La redazione consiglia:
Dieci donne uccise ogni mese, la metà dal partner o dall’ex

E poi ci sono le precauzioni considerate naturali, come mandare la posizione in tempo reale a una persona di fiducia o adeguare l’abbigliamento al tragitto che si prevede di fare. Se si prende la metro, per esempio, «so di dover portare anche una felpa grande da mettere addosso» e, in generale, prima di uscire «mi faccio la domanda: posso andare in giro vestita così?». Quello del vestiario è un tema centrale, spesso oggetto di disquisizioni e, nei casi peggiori, di colpevolizzazione delle vittime e giustificazione dei loro aggressori. «Lo so che non cambia nulla» ammette Noemi «ma mettere una maglia larga mi fa sentire più protetta».

Queste preoccupazioni sono il risultato di un retaggio sessista, che promuove l’idea che la donna possa provocare la violenza con il proprio abbigliamento. A pensarla così, sempre secondo Istat nel 2018, è il 23,9% della popolazione, mentre oltre il 39% ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Il 15,1% è, inoltre, dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale sotto effetto di droghe o alcol sia almeno in parte responsabile. «Con la giustificazione dell’alcol alcuni oltrepassano dei limiti. – raccontano le ragazze – Quando vedono una ragazza ubriaca la toccano, la baciano e poi si giustificano dicendo che erano ubriachi anche loro. E poi sei tu a essere giudicata perché non eri così lucida».

Ma nessuna di loro, nemmeno quando è perfettamente sobria, è in grado di reagire a un commento volgare o una molestia fisica. «Una volta camminavo sulla pista ciclabile, era buio ma erano le 7 di pomeriggio, quando a un certo punto ho sentito qualcuno che mi toccava il sedere. Mi sono girata e ho visto un ragazzo che correva via. Mi sono spaventata e ho pianto. Poteva non accontentarsi di questo e io non avrei saputo oppormi» ricorda Valeria. L’errore comune è pretendere dalla vittima, e da questa generazione di vittime in particolare, una reazione ai propri aggressori. Si tratta, però, di un trasferimento delle responsabilità: vengono inquadrati come problemi delle donne quelli che in realtà sono problemi dell’intera società. Le adolescenti non reagiscono direttamente, ma sanno che non sta a loro educare gli uomini e disinnescare a monte una mascolinità tossica pervasiva, nonostante siano convinte che qualcuno dovrebbe farlo.

La redazione consiglia:
Se la violenza maschile raddoppia

Il luogo adatto allo scopo, designato all’unanimità dalle ragazze, è la scuola, spazio dell’educazione e della crescita. «Una sola volta abbiamo partecipato a un corso di educazione sessuale, durante un’autogestione organizzata dagli studenti. Ma gli studenti non possono darsi insegnamenti a vicenda e non può farlo nemmeno un’insegnante qualsiasi, è giusto che lo facciano dei professionisti». Nel report di Osservatorio indifesa pubblicato ieri emerge che su un campione di 10mila ragazzi il 74% ritenga che le vittime di violenza non vengano prese sul serio dagli adulti e denuncia come il 44% degli episodi avvenga proprio a scuola.

«Alcuni professori ti dicono di non vestirti scollata perché poi è colpa tua se loro e i tuoi compagni di classe fanno commenti a sfondo sessuale. In questo modo delle persone che hanno un ruolo educativo legittimano i comportamenti sbagliati dei ragazzi». Eppure, l’educazione sessuoaffettiva nelle scuole è ancora un tabù, anche se sono gli stessi studenti a riconoscerne il bisogno e chiedere dei programmi a livello ministeriale. «A questa età – dice Noemi – avremmo bisogno di qualcuno che ci parli di genere, catcalling, aborto, educazione sessuale. Potrebbe essere una materia vastissima».