Qualche porta si chiuderà, qualcun’altra si potrebbe riaprire. Le porte che si stanno per chiudere alle spalle dei leghisti che Salvini considera traditori, in una sorta di Notte dei lunghi coltelli fortunatamente all’amatriciana, sono questione interna alla Lega. Quelle che si potrebbero invece schiudere per consentire il ritorno dell’AfD, dopo la cacciata dalla delegazione a Strasburgo del nostalgico delle SS Maximilian Krah, sono faccenda dell’eurogruppo Identità e democrazia che si riunisce oggi a Bruxelles. Tra le due vicende c’è una differenza sostanziale: nel primo caso decide Salvini, nel secondo Marine Le Pen.

In materia di espulsioni dal Carroccio c’è un’ipotesi che inevitabilmente prevale su tutte: quella della cacciata del fondatore Umberto Bossi in persona. Che l’erede sia tentato è evidente. Lo ammette lui stesso ricordando in un’intervista che «Bossi espelleva per molto meno». Ma quello non è un passo che si possa decidere alla leggera, perché c’è espulso ed espulso e persino il Bossi in piena forma del 1994 cacciò tutti quelli che avevano resistito al ribaltone contro il primo governo Berlusconi ma salvò il suo numero due Bobo Maroni. Il presidente della Lombardia Fontana, del resto, avverte il capo: «Su Bossi non scherziamo: non ci si può neppure fare cenno. È il fondatore».

Alla fine non è facile che Salvini si decida a un passo tanto estremo. Ma qualche testa vuole che cada e non per irritazione o non solo: perché mira a decapitare e terrorizzare l’opposizione interna in vista del congresso dell’intera Lega in autunno ma ancor di più di quello della Lega lombarda che arriverà prima. Il rischio lo corre lì. Nonostante le tensioni con Zaia a insidiare il suo trono non sono stati negli ultimi mesi tanto i veneti quanto i lombardi.

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La creazione di una sorta di corrente leghista interna a Fi guidata dall’ex pupillo di Bossi, Reguzzoni, appunto quello che l’antico Senatur avrebbe votato, era un passaggio concreto in questa direzione e così la Costituzione del Comitato per il nord, con tanto di benedizione bossiana, a opera dell’ex segretario della Lega lombarda Paolo Grimoldi. Il nome in testa alla lista dei passibili di epurazione è il suo, seguito forse dal Veneto Roberto Marcato.

Il capo d’imputazione a carico di Grimoldi sarebbe quello di aver notificato il voto-coltellata alle spalle dell’antico Senatur, del quale peraltro non ci sono prove salvo la mancata smentita di Bossi, che però non ha neppure confermato.

Se Salvini può resistere a una spallata vagheggiata da mesi è merito del generale Vannacci. La gratitudine in questo caso è d’obbligo: «Ha preso mezzo milione di voti alla faccia dei sinistri», gongola il Capitano scampato al naufragio per un soffio, anzi per lo 0,1% in più rispetto al 2022 nonostante 200mila voti in meno. Non è detto che il miracolo si ripeta. Vannacci, secondo le voci che corrono impetuose tra i leghisti, avrebbe già deciso di dar vita a un suo partito e avrebbe chiesto la candidatura in tutte le circoscrizioni proprio per costruire ovunque i comitati elettorali a suo supporto, nucleo del futuro partito e chissà se avrà il coraggio, nel caso, di piazzare nel simbolo la X di cui si fregiava l’armata di Junio Valerio Borghese.

Al momento, comunque, quel mezzo milione di voti portati in dote dal graduato permette a Salvini di scommettere sulla vittoria nei due congressi che aveva sin qui rinviato a ripetizione. Può vincere la scommessa e proprio per questo i governatori che soli potrebbero davvero fargli le scarpe, Zaia e Fedriga, non intendono per ora muoversi. Non sino a che non avranno la certezza di vincere.

A far precipitare la situazione potrebbe essere l’autonomia differenziata. La premier ha deciso di accelerare sulla riforma della giustizia, che dovrebbe arrivare in parlamento prima di luglio, ma sull’autonomia esita. Le è costata un mucchio di voti al sud, potrebbe costarle in futuro anche di più, persino il referendum. Fosse per lei, frenerebbe, ma potrà farlo, ormai a un soffio dall’approvazione definitiva, solo col semaforo verde di Salvini. Solo che quel semaforo verde spingerebbe i governatori alla rivolta. Volente o nolente Giorgia Meloni dovrà rischiare tutto sulla riforma che ama di meno.