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Il «bloqueo» che strangola Cuba ha i soliti due alfieri

Il «bloqueo» che strangola Cuba ha i soliti due alfieriL'assemblea generale delle Nazioni unite condanna a larga maggioranza, e per la trentesima volta, il pesante embargo imposto a Cuba dagli Usa – Onu

Fa il pieno di «sì» all’Onu la mozione di condanna delle sanzioni unilaterali decise da Trump e confermate da Biden. Ucraina e Brasile si astengono. Da Usa e Israele l'abituale doppio «no». Gli effetti della grave crisi in cui versa l'isola spingono intanto la popolazione ai limiti della sopportazione. E la "contra anticastrista alza il tiro. Ma la tesi dello «stato fallito» non regge

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 5 novembre 2022

La mozione di Cuba contro il blocco economico, finanziario e commerciale unilaterale degli Stati uniti ha avuto anche quest’anno un sostegno quasi totale da parte dei paesi membri dell’Onu: 185 a favore, due astenuti (Ucraina e Brasile), due, i soliti Usa e Israele, contro.

A differenza degli anni passati la richiesta di censurare il sessantenne bloqueo statunitense avviene in una momento assai critico per Cuba. Il presidente Biden non solo ha mantenuto il vero e proprio strangolamento dell’isola voluto dal suo predecessore Trump, compresa anche la conferma di Cuba nella lista nera statunitense dei «paesi che favoriscono il terrorismo», ma di recente ha dichiarato che «Cuba è uno stato fallito, che opprime la sua popolazione». Dunque che il blocco strangolatore è lecito e «serve ad aiutare il popolo cubano».

LA TESI DELLO «STATO FALLITO», che tende a equiparare quello cubano al socialismo realizzato e già fallito in Urss e negli ex Paesi socialisti dell’Est Europa, è ormai da settimane ripresa e diffusa massicciamente in rete da tutte le organizzazioni della contra direttamente o indirettamente finanziate da vari organismi degli Usa e/o legate alle destre europea e in Argentina. Gli avvoltoi volano sempre più bassi, assieme alla tesi che «è ormai iniziata la fine del tardocastrismo» e dunque che la popolazione deve «scendere nelle strade» e anche usare la violenza, magari per favorire un intervento degli Usa.

Un esempio della massiccia aggressività è venuto il giorno – alla fine di ottobre – in cui l’uragano Ian ha toccato terra nella provincia di Pinar del Rio con venti superiori a 200 km all’ora provocando gravissime distruzioni (più di 89.000 case danneggiate, culture rase al suolo, tre morti e black out in tutta l’isola) quando 37.000 messaggi di Twitter replicavano l’hashtag #CubaPaLaCalle, con l’appello a bloccare le strade, assaltare istituzioni di governo e compiere atti di sabotaggio, con istruzioni su come preparare molotov e bombe caserecce. Meno del 2% provenivano da Cuba, il resto da piattaforme tecnologiche soprattutto statunitensi.

I dati forniti all’Onu dal ministro degli Esteri Bruno Rodriguez, parlano chiaro, dall’agosto 20021 al febbraio di quest’anno il bloqueo Usa ha prodotto perdite per lo Stato cubano valutate in 3.806 milioni di dollari con un aumento del 49% rispetto ai sei mesi precedenti. In totale il sessantennale embargo ha causato a Cuba perdite valutate in 150.410 milioni di dollari. Cifre che sarebbero esiziali per la grandissima parte di piccoli paesi, anche europei.

LA GRAVE CRISI CUBANA ha però anche origini da ritardi e scelte errate da parte del governo socialista. Su questo punto da mesi concordano non solo varie – e assai minoritarie – dissidenze interne, sia di natura socialdemocratica che liberista, ma anche da parte di economisti dell’università dell’Avana, come Juan Triana. I quali affermano che ormai da tempo sono imprescindibili riforme strutturali. Alcune delle quali erano già state tracciate nei Lineamenti alla base di quella che l’allora (2011) presidente Raúl Castro aveva definito «la modernizzazione del socialismo cubano» col fine di renderlo «prospero e sostenibile».

UNDICI ANNI DOPO, almeno la metà delle misure richeste non sono state attuate. Anche l’Ordenamiento economico-monetario di due anni fa si è mostrato sostanzialmente un fallimento: l’inflazione è alle stelle, il sistema elettrico nazionale gravemente in crisi con ormai cronici black out in tutta l’isola, grave scarsezza di prodotti di prima necessità che obblica la popolazione a lunghe code quotidiane, caduta della produttività – drammatica nel settore dello zucchero -, indebitamento estero e doloroso aumento dell’emigrazione: più di 200mila cubani nell’ultimo anno, la maggior parte diretti negli Usa dove i cubani godono di un trattamento privilegiato rispetto agli altri latinoamericani.

Nonostante questa drammatica situazione – in buona parte, ma non solo, causata dall’embargo – lo Stato cubano è tuttaltro che «fallito». E questo secondo i criteri di vari organismi internazionali indipendenti. Pur nella grave crisi il governo fornisce tutti i servizi di base – compresa la vaccinazione di massa che ha prodotto la quasi totale scomparsa del Covid -, garantisce il controllo della circolazione di armi e della violenza (a differenza degli Usa), attua politiche di assistenza sociali possibili con le finanze di cui dispone (anche avanzate come prevede il recente nuovo Codice di famiglia) e mantiene la governabilità.

PER GRAN PARTE della popolazione però la situazione attuale è al limite della sopportazione. E le forme di protesta, specie contro i black out, sono frequenti. Ma quasi sempre si fermano una volta rispristinato il servizio elettrico. In sostanza, queste proteste esprimono un grande disagio che diventa sempre più profondo e critico verso il governo. E che non può essere affrontato con la repressione. È questa, l’attuazione di riforme, la grande sfida del socialismo cubano.

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