Iegor Gran, con lo sguardo del nemico
Scrittori russi Con il dinamismo di una detective story intrisa di umorismo nero, Iegor Gran racconta la caccia del regime sovietico a suo padre, lo scrittore Andrej Sinjavskij: «Gli uffici competenti», da Einaudi
Scrittori russi Con il dinamismo di una detective story intrisa di umorismo nero, Iegor Gran racconta la caccia del regime sovietico a suo padre, lo scrittore Andrej Sinjavskij: «Gli uffici competenti», da Einaudi
Nel suo capolavoro autofinzionale, Buonanotte, Andrej Sinjavskij, il più sottile esteta fra i dissidenti sovietici, ricorda come l’atmosfera funambolica del suo arresto da parte del KGB fosse magnificamente evocata nei «romanzi» che suo figlio Egor componeva a sette anni, prima ancora che lui fosse rilasciato dai lavori forzati. A cinquant’anni di distanza quel bambino, ormai scrittore di lingua francese, dedicherà il suo quindicesimo romanzo alle vicende, all’epoca di assoluto rilievo mondiale, della clandestinità e dell’arresto del padre, che aveva sfidato a oltranza il regime sovietico continuando a far pervenire in Occidente le sue opere di irriverente fantasmagoria e allegoria, che venivano pubblicate sotto lo pseudonimo di Abram Terc (assieme a quelle dell’amico Julij Daniel’, alias Nikolaj Aržak).
Gli uffici competenti (Les Services compétents, traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, Einaudi, pp. 227, € 19,00) è firmato, come tutti i suoi libri, con lo pseudonimo (cognome della moglie) Iegor Gran, a testimonianza di qualche gravame per l’illustre ascendenza. Anche in questa ottica, ma soprattutto in sintonia con una fama di corrosivo humour nero e paradossali soluzioni narrative, la storia della caccia al padre è raccontata secondo il punto di vista del tenentino dei servizi segreti Evgenij Fëdorovic Ivanov, impacciato, insicuro, idealista, dogmatico, macchietta costantemente sul filo tra sarcasmo e tenerezza.
Con lo sguardo del nemico
La prospettiva rovesciata e gli occhi del nemico aggiungono suspense e idiosincrasia all’indagine, condita di false piste, abbagli, tormentosi rovelli e congetture, che ingigantiscono fino a mitizzarla l’immagine paterna, generando, nello stesso tempo, un imbarazzante senso di intimità con gli abborracciati e umanissimi persecutori.
L’intreccio si indirizza così verso il giallo, e si sviluppa, sebbene il «colpevole» sia annunciato sin dalla prima pagina, con i ritmi e il dinamismo al genere connaturati, conferendo ai sempre più eversivi libri di Terc pubblicati in tutto il mondo il peso specifico di cadaveri in progressivo accumulo, con gli emblematici crucci dei detective frammisti a dissimulata ammirazione. Emergono i profili degli altri componenti della squadra, da un lato stereotipi, dall’altro inimitabilmente russo-sovietici: Kulakov lo sciocco, il belluino Shmakov nostalgico di Stalin, il giudice istruttore Pachomov, sornione lettore di Tolstoj e Cechov, e il capitano Nikonovic, disilluso e piuttosto permeabile alle sirene della sovversione.
Al canone del giallo appartiene però solo metà del libro: in proporzioni eguali si alternano capitoli di cronistoria socio-culturale degli ultimi anni del disgelo, che scandiscono dinamiche grandi e piccole di crisi e fermento: Gagarin nello spazio, Stalin sfrattato dal mausoleo con taglio dei bottoni d’oro della giubba, lo speculatore Ian Rokotov condannato a morte con sentenza retroattiva, la grande fiera americana al parco di Sokol’niki, fino a giungere al 1964 con le morti di Thorez e Togliatti e l’estromissione di Chrušcev.
Fil rouge è sempre l’onnipresenza dei «nostri» servizi competenti, che negli intervalli della caccia a Terc vanno a fotografare una quotidianità fatta di jeans, rossetti e dischi trafugati, pareti tappezzate di riviste satiriche in penuria d’intonaco, divine apparizioni di arance del Brasile e mandarini georgiani, bare calate dalla finestra perché non passano dalle scale. Con profusione di sarcasmo, commiserazione, timida nostalgia soprattutto per la palese ingenuità. In questi capitoli il modo della narrazione si fa più neutro, e di conseguenza più apertamente irridente. Il lettore percepisce la richiesta di un patto narrativo che autorizzi lo slittamento dalla prospettiva iniziale, con scarti focali anche due volte nella stessa pagina. Con sorpresa ci si rende conto che gli eventi descritti, al di là della verve espositiva, sono tutti rigorosamente storici e documentati, e anzi, sono tutti reali e presentati con il loro vero nome anche i personaggi del giallo. È autentico anche il tenente Ivanov che crede ancora nella rivoluzione mondiale, patisce fitte a ogni deviazione ideologica scoperta e, al crocevia tra l’ardente cuore russo e l’antifrastico cinismo autoriale, prova persino a aiutare le sue vittime.
L’unico che potrebbe mantenere l’anonimato è il campione della sua vezzeggiata scuderia di informatori, lo spietato, del tutto amorale, colto, raffinato studioso dell’architettura dell’Asia centrale soprannominato Monocolo, autentico agente provocatore che sobilla e poi vende gli amici più cari. Si tratta, com’è facile ricostruire in base a Buonanotte, di Sergej Chmel’nickij, cui Sinjavskij affida nel suo libro un ruolo affatto centrale di anima nera, essere del tutto svincolato da ogni contenuto dell’involucro corporeo, privilegio rarissimo nell’universo metaletterario dello scrittore, riservato solo ai geni puri e irresponsabili come Puškin e Mozart.
Ludico demiurgo, Sinjavskij risplasma il cosmo a piacimento e, annichilendolo sul piano umano, concede a questo poeta grafomane il più alto, nella sua ottica, dei riconoscimenti (non sembra che il Chmel’nickij biografico abbia capito né gradito). Esattamente in linea con il padre, Gran lo lusinga sul côté creativo rivoltando il coltello nella piaga, eppure, sempre tra le righe, ma in discreta evidenza, lo assolve dal peccato più grave: non è lui ad avere denunciato Sinjavskij e Daniel’ e, anzi, pur essendo ispiratore sia di un personaggio che di una trama del secondo, ne rallenta persino l’arresto. È questa forse, in prospettiva storiografica, l’affermazione più marcatamente originale del libro di Gran.
Su come effettivamente siano state scoperte le primule rosse della letteratura mondiale non dice nulla di esplicito, non sottolinea l’oggettivo maggiore impulso dato alle indagini dall’avvento di Brežnev e nulla dice della pur imposta e abilmente elusa collaborazione con i servizi del padre stesso, da questi dichiarata sia per il 1947 che per il 1952, sempre in merito a falliti approcci cospirativi nei confronti di una sua ex francese, la stessa che poi ne trasferirà in Occidente le opere clandestine.
Personaggi femminili decisivi
Per apprezzare a pieno tutte le sottili e sardoniche antifrasi che sono il sale del libro bisogna però soffermarsi su due particolari: entrambi i protagonisti sono incastonati e insieme soggiogati da due travalicanti ritratti femminili; la moglie di Ivanov, Larissa, non meno ligia ideologicamente di lui, lo corrobora e lo castra ulteriormente in ogni decisione, è il suo grillo parlante immancabilmente ascoltato; Marija Rozanova, la madre di Gran, è senza dubbio oggetto delle sue preferenze filiali e autoriali, appare donna di furibonda energia e sferzante, caustica abilità dialettica, capace da sola di tener testa all’intero KGB, orgogliosa di aver trasformato la penna del marito nel coltello del bandito Abram Terc. Chi, però, più di tutti sguazza nello spumeggiante tessuto narrativo – che per lui si fa autofinzionale – è il piccolo Egor, nato con i genitori ormai sotto «vincolo operativo», registrato dalle microspie in ogni vagito e pernacchietta, divenuto, nell’unanime intenerimento, un’autentica mascotte del KGB.
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