Identità sessuale, la ricerca di un dialogo con la psicoanalisi
La notizia che l’American Psychoanalytic Association ha rivolto scuse ufficiali alla comunità LGBT per aver patologizzato, nel corso della storia, gli orientamenti non eterosessuali e le identità trans*, riportata da […]
La notizia che l’American Psychoanalytic Association ha rivolto scuse ufficiali alla comunità LGBT per aver patologizzato, nel corso della storia, gli orientamenti non eterosessuali e le identità trans*, riportata da […]
La notizia che l’American Psychoanalytic Association ha rivolto scuse ufficiali alla comunità LGBT per aver patologizzato, nel corso della storia, gli orientamenti non eterosessuali e le identità trans*, riportata da Vittorio Lingiardi sulla Repubblica qualche settimana fa, ha dato inizio a un dibattito continuato poi sulle pagine del manifesto, in cui, tardivamente ma fortunatamente, hanno preso parola anche persone trans*.
Lorena Preta e Sarantis Thanopulos, entrambi della Società Psicoanalitica Italiana, vedono, nelle identità trans*, la “negazione del dato biologico” e la “negazione del lutto” che si accompagna alla “costruzione di un’anatomia fittizia”. “Condizioni di cui prendersi cura” senza “compatirli, né assecondare la loro visuale” (Thanopulos).
Come gruppo di terapeuti, psicoanalisti e ricercatori che da anni si occupano di identità trans*, ci uniamo al dibattito cercando di dare voce a un’altra psicoanalisi, capace di coniugare l’ascolto rispettoso delle persone direttamente interessate con l’aggiornamento scientifico.
Sul genere e la sessualità la psicoanalisi ha preso diversi abbagli: pensiamo alle donne (“passività” e “invidia del pene”) e alle persone omosessuali (“immaturità”, “narcisismo”, “perversione”).
Temiamo le ripetizioni.
La letteratura scientifica ha chiarito che le identità trans* non sono realtà in sé patologiche. Disturbi coesistenti, se presenti, sono il più delle volte legati a esperienze traumatiche. La teoria psicoanalitica, dal canto suo, ha abbandonato da tempo l’idea di un’unitarietà del soggetto, sviluppando una concezione dinamica del Sé.
Non esiste una sola identità trans*. Ci sono persone che si identificano con un sesso opposto a quello di nascita, altre che non si riconoscono nel binarismo maschio-femmina, altre che non si riconoscono in alcun genere e altre ancora. Per alcune l’adeguamento tra la propria identità di genere e il sesso (con percorsi che prevedono interventi chirurgici e/o cure ormonali) è vitale, per altre invece non è importante. Parlare di questa complessa rete di identificazioni e autodefinizioni, riducendola a una “dissociazione” che produce un “corpo contraffatto” ci sembra riduttivo.
Chiunque abbia esperienza clinica diretta di bambini e bambine, ragazzi e ragazze, “in crisi” con il genere assegnato alla nascita, sa che il significato, l’intensità e la durata (in termini di persistenza e desistenza, usando i termini della letteratura scientifica) della propria “costruzione” di genere è estremamente variabile. Come lo sono i contesti familiari in cui si sviluppano.
Ci sembra che il dibattito che ha visto gli/le attivisti/e trans* contrapporsi alle prese di posizione di alcuni psicoanalisti corra il rischio di polarizzarsi, da entrambe le parti, su affermazioni minacciate dall’ideologia e dal pregiudizio.
Alla psicoanalisi vogliamo ricordare che in gioco ci sono i corpi e le identità di altre persone, la loro possibilità di essere se stesse. Agli/alle attivisti/e trans* indichiamo, anche a partire dalla nostra esperienza di interlocutori clinici, che le storie e le voci delle persone trans* non sempre parlano da una posizione di sicurezza e di forza come quella che traspare dalle parole delle attiviste che hanno partecipato al dibattito. Come da ogni percorso di autoaffermazione, anche in questo caso non si può espungere la parola “sofferenza” dalla propria narrazione.
Dobbiamo essere consapevoli che la questione dell’identità di genere crea un benefico “disturbo” alla psicoanalisi, la invita a pensare e forse ad ammettere che c’è ancora molto da capire. E quindi da ascoltare.
Una strada è quella indicata da chi, coinvolto in prima persona, ha preso parola su queste pagine, chiedendo di parlare “con noi” e non “di noi”, costruendo “un dibattito e non un monologo” (Antonia Caruso, Monica Romano e Laura Caruso).
E di “prendere atto” che essere trans* in sé “non è una condizione patologica”, auspicandoci che gli “specialisti della psiche” sappiano offrire alle persone trans* un ascolto libero dal pregiudizio teorico.
Alessandro Fortunato, Guido Giovanardi, Vittorio Lingiardi, Laura Porzio Giusto, Anna Maria Speranza. Unità di ricerca della Sapienza di Roma
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