Ce lo indica quel che sappiamo – per la verità non moltissimo – del tanto sbandierato Piano Mattei, uno dei pilastri della politica estera del governo Meloni. Presentato durante la conferenza Italia-Africa tenutasi a Roma lo scorso fine gennaio, il Piano è per ora una cornice appena abbozzata, nel quale rientra qualche progetto di sviluppo, si eseguono partite di giro con fondi già stanziati e si accenna a opere per la produzione di energia. Tra queste, per l’appunto, il Corridoio Sud dell’Idrogeno (o SouthH2Corridor). Un’infrastruttura mastodontica, un serpentone lungo 3.300 chilometri che dall’Africa del Nord dovrebbe giungere fino in Germania, passando per l’Italia. L’idrogeno sarebbe prodotto in buona parte in Tunisia.

IL TRATTO NOSTRANO SI CHIAMERÀ Italian Hydrogen Backbone e sarà davvero la spina dorsale di un progetto particolarmente ambizioso. Il segmento italiano, da quanto si sa, dovrebbe essere composto per il 70 per cento da gasdotti già esistenti ri-adattati, o retrofitted che dir si voglia, per far circolare nelle loro tubature idrogeno. Un’operazione stimata in 4 miliardi di euro, che potrebbero essere coperti in buona parte da aiuti di stato. La Commissione europea ha dato infatti via libera alla richiesta di sette governi, tra cui Italia, Germania e Slovacchia, di sussidiare progetti per il trasporto e la produzione di idrogeno per 6,9 miliardi di euro. Si tratta di risorse che provengono dalle casse pubbliche di ciascun esecutivo e che quindi dovranno essere sottratte ad altri capitoli di spesa.

LA COMMISSIONE EUROPEA HA ANCHE INCLUSO il Corridoio Sud dell’idrogeno nella nuova lista dei Progetti di Interesse Comune e di Interesse Mutuo: questo garantirà la possibilità di applicare procedure semplificate per la sua costruzione e ai proponenti di accedere a finanziamenti pubblici della Connecting Europe Facility, oltre che di istituzioni finanziarie come la Banca europea degli investimenti e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (quest’ultima solo per la componente nordafricana). Già, i «proponenti».

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A spingere per il Corridoio, oltre a società tedesche e austriache di primo piano, spicca la Snam (30% di azioni in capo allo Stato), tra le corporation che da anni fanno pressione sulle istituzioni per chiedere sostegno economico e politico per la creazione di un mercato dell’idrogeno e tra i principali promotori della European Hydrogen Backbone, il macro progetto infrastrutturale delle corporation del gas europee che ne sta alla base.

SE IL PROGETTO VEDESSE LA LUCE, dichiarano le varie multinazionali dei tubi, si potrebbe coprire fino al 40% dei target di importazione di idrogeno previsti da RePower EU, calcolati in 20 milioni di tonnellate l’anno entro il 2030, di cui 10 milioni da fuori dall’Ue.

IL CORRIDOIO SUD SAREBBE LA PRIMA DI CINQUE dorsali europee, per costi che si aggirano tra gli 80 e i 130 miliardi di euro. Insomma, quello dell’idrogeno è il nuovo business fiutato dalle multinazionali fossili, compresa la nostra Snam, per garantire lunga vita a infrastrutture fossili che grazie alla narrazione dell’idrogeno sembrano un po’più green, ma in realtà non fanno altro che perpetuare il caro, vecchio modello estrattivista. Ma quanto idrogeno viene realmente prodotto oggi su scala globale? Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia molto poco: 95 milioni di tonnellate nel 2022, di cui 0,087 milioni sono stati prodotti da elettrolisi, un misero 0,1%, in cui va fatta rientrare anche la quota derivante dal nucleare – quindi saremmo addirittura sotto lo 0,1% di idrogeno verde. Come dire che la crescita dell’idrogeno verde alla base del Corridoio Sud va tutta verificata.

POI C’E’ UN IMMENSO PUNTO INTERROGATIVO su come verrebbe generato l’idrogeno verde, bollato da 500 organizzazioni della società civile africana come una «falsa soluzione». In una dichiarazione congiunta hanno denunciato che «non fa nulla per i 600 milioni di africani che non hanno accesso all’energia. Invece trasforma la nostra energia rinnovabile in merce da esportazione, che finisce così all’estero. Si tratta di un’estrazione neocoloniale delle risorse energetiche e idriche africane. L’energia rinnovabile deve essere destinata prioritariamente all’uso interno, non ai mercati esteri. La desalinizzazione dell’acqua di mare per la produzione di idrogeno verde è dannosa anche per il nostro ecosistema marino. L’idrogeno verde per la produzione a basso valore aggiunto in Africa genera trappole economiche strutturali che dobbiamo superare».

LA SOCIETA’ CIVILE AFRICANA RIMARCA così le criticità di un progetto che, oltre all’accaparramento di terre (servono migliaia di ettari per le installazioni di energia rinnovabile e degli elettrolizzatori), presenta come elemento critico proprio quello dell’uso delle risorse idriche, che nel nord del continente non sono certo abbondanti, tanto che si dovrebbe attingere in maniera copiosa – e dannosa – dal mare.

PER OTTENERE 9 LITRI DI ACQUA ULTRA PURA, necessari a produrre un chilo di idrogeno, servono almeno 13 litri di acqua dolce, e fino a 20 litri di acqua da desalinizzare. In paesi in buona parte desertici e semi desertici come Marocco e Tunisia, la realizzazione di impianti di desalinizzazione dedicati alla produzione di idrogeno rischia di acuire l’instabilità sociale su un tema delicato come quello dell’accesso all’acqua e sulla gestione della risorsa idrica.

Un approccio neocoloniale in cui la politica italiana ed europea incentivano una visione «al servizio dei bisogni europei», che fa prevalere l’utilizzo dell’acqua per la produzione di energia sui bisogni di base della popolazione locale e sulla tutela di un ambiente fragile, che diventa così zona di sacrificio. Un corto-circuito in contrasto con la retorica di sostegno all’Africa tanto cara alla presidente del consiglio. Una spessa patina di «sviluppismo» un tanto al chilo per favorire gli interessi di multinazionali nostrane come Snam destinata a sciogliersi come neve al sole una volta che ne sapremo di più sul Piano Mattei.