Delegati, osservatori, lobbisti: alla Cop28 mangiate pur tranquilli. Fra colazione, pranzo, cena e snack, collezionate un’impronta carbonica giornaliera di 2,3 kg di CO2 equivalenti, che i padroni di casa ritengono «allineata al limite di 1,5°C» di riscaldamento globale. Almeno per due terzi, i 90 tipi di menù (250.000 i pasti serviti quotidianamente) sono vegetariani o vegani.

SUI SISTEMI AGROALIMENTARI, a Dubai è stata approvata la Emirates Declaration on Sustainable Agriculture, Resilient Food Systems, and Climate Action, firmata da 134 paesi. Il macro settore, vitale per la sopravvivenza umana, da un lato è uno dei fattori chiave del riscaldamento globale (oltre che della perdita di biodiversità e dell’inquinamento), producendo circa il 34% dei gas serra globali, dall’altro è al centro dei danni climatici; gli eventi estremi causano perdite devastanti per gli agricoltori, all’agricoltura e alla sicurezza alimentare, soprattutto nel Sud del mondo, come evidenzia la Fao. Eppure il rapporto Untapped Potential della rete Climate Focus for farmers ha rilevato che i piccoli agricoltori ricevono solo lo 0,3% dei finanziamenti per il clima. Nella Dichiarazione ci si impegna a includere i sistemi alimentari negli impegni climatici dei paesi (Contributi nazionalmente determinati – Ndc) e nei piani nazionali di adattamento, ma anche nelle strategie a tutela della biodiversità. E poi: ridurre la vulnerabilità di tutti i produttori, passare ad approcci di produzione e consumo più sostenibili, aumentare le risorse finanziarie, accelerare l’innovazione, includere le conoscenze locali e indigene. Ma si passerà ai fatti – indispensabili?

UNO STUDIO SU «SCIENCE» sottolinea che, anche se le emissioni di gas climalteranti legati ai combustibili fossili venissero immediatamente bloccate, le tendenze in corso (business as usual) dei sistemi alimentari globali – sulla base delle diete, della demografia, delle rese e dello spreco di cibo – impedirebbero il raggiungimento dell’obiettivo di 1,5°C. Le emissioni di gas serra del sistema alimentare globale derivano in gran parte dalla produzione di cibo e dal disboscamento dei terreni a questo scopo. Una dieta universale ricca di vegetali (e povera di carne, zuccheri e cereali raffinati) fa parte delle cinque strategie suggerite dallo studio; se adottate massicciamente, potrebbero portare a un sistema alimentare con emissioni cumulative nette marginalmente negative, grazie anche al sequestro netto di carbonio nelle terre coltivate abbandonate.

MA GLI ALLEVAMENTI AUMENTANO (i grattacieli per maiali sono una realtà) e totalizzano un’ampia fetta dell’impronta ecologica e climatica dell’agroindustria. Un’inchiesta del Guardian ha rivelato le pressioni corporative per presentare la carne come cibo sostenibile ed essere presenti massicciamente a Dubai, ma secondo la campagna Stop Financing Factory Farming Campaign (Friends of the Earth, Global Forest Coalition, Brighter Green, Cafod ecc) nel rapporto Climate Misalignment, il settore zootecnico contribuisce a quasi un quinto delle emissioni totali di gas serra e a un terzo di quelle di metano. Un database su 40.000 aziende agricole in 199 paesi, per 40 prodotti valutati, affermava (nel 2018 su Science) che dal campo alla forchetta l’impatto dei cibi animali più leggeri era pur sempre superiore a quello dei sostituti vegetali. E uno studio internazionale (su Nature) suggerisce che, in ossequio agli obblighi climatici, i paesi grandi consumatori di carne (non solo in Occidente) debbano ridurla del 90%. Nondimeno, quanto ai paesi a minore consumo di prodotti animali, nella road map 1,5°C proposta dalla Fao (che ha comunque una strategia sui cambiamenti climatici 2022-2031) per la transizione del settore agroalimentare e in particolare per le produzioni animali, si mira a incoraggiare miglioramenti nella produttività, sostenibilità, resilienza. Dal canto suo, il progetto Plant-based Treaty, firmato da oltre 1200 organizzazioni e moltissime persone, chiede un Trattato internazionale parallelo agli accordi di Parigi «per avviare una transizione verso sistemi alimentari basati sui vegetali così da fermare il degrado degli ecosistemi e la deforestazione causati dall’agricoltura animale, e ripristinare foreste e spazi naturali».

SENZA LE FORESTE, POZZI DI CARBONIO (come i suoli e gli oceani) capaci di assorbire quasi un terzo delle emissioni antropiche di gas serra oltre ad accogliere tanta biodiversità vegetale e animale, non c’è salvezza. Azzerare la deforestazione (che insieme al degrado è responsabile di circa il 13-14% delle emissioni totali di anidride carbonica) e ripristinare le foreste naturali degradate è dunque una priorità; meglio delle nuove piantagioni gestite, sostengono alcuni ricercatori. Ma, a partire dalle foreste più importanti, l’Amazzonia, il bacino del Congo e il Borneo, gli attacchi dovuti al taglio, all’agricoltura, agli incendi continuano. L’importanza della gestione degli ecosistemi terrestri è riconosciuta, spiega il sito climalteranti.it, dalle Nazioni Unite attraverso il settore Lulucf (Land Use, Land Use Change and Forestry), che include emissioni e assorbimenti di CO2 dai suoli agricoli e dalle foreste. D’altronde, a parte le varie tecnologie (incerte) per rimuovere la CO2 dall’atmosfera e stoccarla, la buona gestione degli ecosistemi rappresenta l’unico meccanismo capace di garantire assorbimenti antropici di gas serra.

MA IL GREENWASHING È IN AGGUATO per foreste e suoli, come sottolinea la rivista Down to Earth. Sia da parte dell’agribusiness, con soluzioni iper-tecnologiche spinte per esempio dalla Agriculture Innovation Mission guidata da Usa ed Emirati, sia da parte dei produttori e consumatori di combustibili fossili, con i meccanismi di offsetting o compensazioni attraverso anche i crediti di carbonio (chiamati «mercato delle indulgenze»). Spiega ad esempio il Land Gap Report 2022, promosso fra gli altri dal Third World Network, che gli impegni nazionali di mitigazione attraverso la natura – in mancanza di piani di riduzione delle emissioni – coinvolgono a livello planetario l’enorme superficie di un miliardo di ettari. Ma, se una metà – quella positiva – dei progetti è di ripristino (senza cambiare l’uso delle terre, consente agli ecosistemi di recuperare anche la capacità di stoccaggio del carbonio), l’altra metà prevede la solita piantumazione di alberi e coinvolge normalmente un cambiamento nell’uso dei suoli, spesso in concorrenza con la sicurezza alimentare e i diritti delle comunità locali, talvolta espulse dalle terre per far posto alle compensazioni dei ricchi. Anche il Global Carbon Project chiede trasparenza: «Gli sforzi sono efficaci solo se lo stoccaggio del carbonio è permanente», ma gli alberi sono soggetti a siccità, incendi, malattie, sempre più frequenti. E spesso le piantagioni sono da taglio. Anche il carbonio stoccato nelle mangrovie può essere rilasciato in seguito a ondate di calore.

GLI ALBERI E I BOSCHI HANNO MOLTE UTILI FUNZIONI salvifiche, ma è pericoloso credere che si possa fermare il caos climatico piantandone il più possibile senza velocemente fuoriuscire dai combustibili fossili.