«L’idea di legare la suora fu sua». Con un attacco così, diretto e improvviso, chiunque di noi si aspetterebbe una storia concepita per diventare un film di Quentin Tarantino. E invece no. Paese infinito, il terzo romanzo della statunitense Patricia Engel, sceglie immediatamente di percorrere un’altra strada (Fazi, pp. 300, euro 18, 50, traduzione Enrica Budetta). Ciò non significa che la narrazione non presenti quel genere di colpi di scena che nel corso degli ultimi trent’anni abbiamo imparato ad associare al genere pulp – fughe e inseguimenti forsennati, attraversamenti di confini, esplosioni di violenza. Né che manchino personaggi-tipo – la madre, la figlia, la abuela, il gringo ecc. – la cui mera apparizione richiama senza sforzo destini e ruoli già noti – e quindi adatti a essere rivisitati, rimodernati, manipolati. E invece no, anche stavolta no. Perché, nonostante quell’attacco assurdo, Paese infinito rifiuta, del pulp, la distanza ironica – e questo non è necessariamente un danno.

IL MOTIVO DEL RIFIUTO è semplice. Paese infinito non partecipa al gioco autoreferenziale della letteratura postmoderna perché è un romanzo ottocentesco. È uscito negli Usa nel 2021, certo, ma è un romanzo che guarda al passato. Paese infinito adotta sia un genere ottocentesco – il romanzo sentimentale – sia la tecnica più innovativa della narrazione ottocentesca – il discorso indiretto libero (Gustave Flaubert, Henry James…).

La scrittrice Patricia Engel

Nessun gioco postmoderno, dunque, ma tanta intimità, tanta partecipazione; al punto che, una volta iniziato a leggere, è difficile staccare, difficile abbandonare quella storia costruita così e quei personaggi fatti così. Engel, d’altra parte, non ce lo permetterebbe mai. Con Paese infinito l’autrice ci abbraccia e non smette di stringere fino all’ultima pagina. Noi la lasciamo fare sia perché a narrazioni tanto efficaci è difficile opporsi sia perché questo è un romanzo che racconta una storia significativa e scottante per noi, oggi, cioè nel presente. Paese infinito segue la travagliata migrazione di una famiglia dalla Colombia agli Stati Uniti. Di oggi.

La famiglia, parte tutto da qui. La famiglia del romanzo borghese è notoriamente statica e asfissiante. Quella del romanzo sentimentale, invariabilmente spezzata, è un motore di dinamismo, l’innesco di una corsa al ricongiungimento perseguita per il bene di tutti – perché dalla sua coesione discende quella sociale tout court. E allora eccoci, lettori e lettrici di Paese infinito, a palpitare per Elena, Mauro e per i loro figli come in passato per la famiglia di schiavi fuggiaschi al centro di La capanna dello Zio Tom (1850), il romanzo antischiavista di Harriet Beecher Stowe, che per primo, almeno negli Usa, insegnò agli statunitensi – soprattutto alle lettrici donne – a riconoscersi nel dolore degli «ultimi», a piangere insieme a loro, a mescolare lacrime e destini fino ad allora distanti in un unico singhiozzo romanzesco, in un’unica famiglia nazionale.

QUASI DUE SECOLI DOPO, scrivendo dallo stesso Paese, gli Usa, che oggi continua a spezzare le famiglie in nome di leggi (in questo caso anti-immigrazione) sempre più spietate, Engel resuscita quel genere letterario tanto fortunato e lo riempie di presente. Il risultato, nonostante Pablo Escobar, l’attacco al World Trade Center e motociclette rombanti, è un romanzo militante dal cuore sentimentale, uno che ci fa sussultare e indignare, uno che ci commuove, proprio come accadeva nell’Ottocento. Uno che di colpo trasforma quella famiglia di sconosciuti in una famiglia vicina alla nostra, vicinissima a noi. Non è cosa da poco.

Con grande abilità, dunque, e dopo averci agganciati con una frase fuorviante e francamente inutile – perché non facciamo in tempo a chiederci a quale perverso o perversa possa essere venuto in mente di legare una suora che già non ci interessa più – Engel ci avvinghia alle sorti della suddetta famiglia grazie a una narrazione mozzafiato, veloce e avvincente quasi come un film d’azione.

AZIONE. Si fa presto a dire azione. In Paese infinito, che pure ha una storia complicata da svolgere, di azione vera e propria ce n’è davvero poca. Come La capanna dello Zio Tom è percorso da un’urgenza politica, e quindi corre. Corre verso il ricongiungimento familiare promesso dal enere cui appartiene e corre verso l’utopia del continente infinito. E corre talmente veloce che allo showing – alle scene – preferisce il telling – il racconto. Poco importa se a tre quarti del volume la/lo storyteller rivelasse di essere un personaggio – o anche due.

L’impressione, per chi legge, resterebbe quella di avere a che fare con una voce narrante che non ammette ambiguità o deviazioni. Con una voce che vuole controllare tutto, che non lascia quasi nulla al lettore o ai personaggi. Una scelta a dir poco singolare, oltre che rischiosa, perché il pericolo di scivolare nel riassunto è altissimo. Ma è così che funziona col genere sentimentale. In ballo c’è una famiglia. Accettiamo questa «sorveglianza invisibile ma onnisciente» (D.A. Miller) solo in nome della famiglia.

CONTROLLO e ancora controllo. Non che questo renda lo spazio romanzesco sgradevole. Tutt’altro. Ma lo chiude, lo protegge da ogni interferenza esterna, lo rende sicuro, moralmente blindatissimo. Niente ironia, dicevo sopra, niente ambiguità. Messaggio chiaro e incontrovertibile.
Paese infinito alterna con efficacia capitoli di storytelling duro e puro ad altri movimentati, qua e là, da brevi scene con i personaggi. In mani meno consapevoli, meno carezzevoli, sarebbe stato un disastro. Engel, però, è brava a blandire i lettori e a imporsi con grazia. Ha capito perfettamente che le lacrime, strumento apparentemente facile, vanno in realtà utilizzate con parsimonia, con perizia. Sa come e quanto farci commuovere, Engel, e alla fine, così mondati, sa che è importante farci sentire migliori di prima. Il romanzo sentimentale ottocentesco è sempre un poco consolatorio, è sempre un poco compiaciuto.

SI PRENDA IL PASSO seguente, un esempio, tra i tanti in Paese infinito, di quella magistrale tecnica di sorveglianza che è il discorso indiretto libero.
«Che cosa aveva di speciale quel Paese da tenere tutti in ostaggio della sua fantasia? Il mese prima su quello stesso suolo, un cittadino americano era andato a lavorare in una fabbrica e aveva sparato a quattordici dei suoi colleghi, e soltanto la primavera precedente c’erano state quattro diverse sparatorie in quattro scuole. Una nazione in guerra con sé stessa, eppure la gente ne parlava ancora come una specie di paradiso».

Acuta e diretta, non fa sconti a nessuno. Sì, ma chi? La voce di Elena o la voce narrante? C’è differenza tra le due? Perché lasciare in sospeso? I casi sono due: o Engel non si fida dei personaggi oppure non si fida di noi. Sullo sfondo intravedo però un unico scenario: quello in cui noi, lettori e lettrici, leggiamo e istantaneamente ci congratuliamo con noi stessi per la prontezza con cui siamo stati in grado di accogliere il «messaggio» politico che – condivisibile o meno – resta però un’opinione – di chi? – pronunciata con la l’assertività del dogma.