Un corpo a corpo con l’Oceano Atlantico. Una scalata impensabile: 118 metri di piattaforma petrolifera su cui inerpicarsi mentre un vento gelido fende l’aria. Siamo a nord delle isole Canarie. È un glaciale martedì di gennaio. L’Atlantico nero si innalza impetuoso. Due gommoni come zattere alla deriva si affiancano a un colosso. Questa è una storia affetta, da qualunque prospettiva la si guardi, da un titanismo senza eguali. L’impresa è sovrumana. Da un lato Shell, la multinazionale petrolifera anglo-olandese in un momento storico di massimo splendore, per i profitti record.

DALL’ALTRO QUATTRO attivisti di Greenpaece, l’ong ambientalista e pacifista canadese, pronti a occupare la nave White Marlin che sta trasportando una piattaforma di stoccaggio e scarico di Shell verso il nord-est delle isole Shetland in Scozia nel Mare del Nord. Non è un atto di pirateria. «Questa è la nostra unica possibilità», si ripetono.

Hanno studiato la rotta per giorni. Si sono sottoposti a un duro allenamento. Hanno analizzato minuziosamente tutto l’occorrente per sopravvivere. Parte la prima corda e nel parapiglia generale con le onde che si sollevano, si infrangono, risucchiano e ripiombano a picco ecco emergere agilmente il primo dei corpi esili lungo il profilo verticale di questo gigante del mare, che lo attraversa placidamente in solitaria, governato da remoto. È la volta della seconda e poi del terzo e del quarto. L’impresa è riuscita. Il titano da 34 mila tonnellate è stato occupato. Ecco sventolare a prua una minuscola bandierina gialla: «Basta trivellare. Iniziate a pagare».

IL CONTO DI QUESTA OCCUPAZIONE, che dura da 10 giorni (è iniziata il 31), lo ha già presentato Shell in tribunale con un’ingiunzione nella tarda serata di venerdì scorso, minacciando fino a due anni di carcere e multe. Si capirà nelle prossime ore, forse oggi o al massimo domani, cosa ne sarà degli attivisti, diventati nel frattempo sei. La resa dei conti avverrà all’approdo nel porto norvegese di Haugesund, da cui poi la nave salperà alla volta della destinazione finale: il giacimento di Penguins North Sea, dove Shell intende sbloccare otto nuovi pozzi di petrolio e gas.

L’AZIONE NON VIOLENTA DI GREENPEACE è partita a due giorni dalla pubblicazione da parte del colosso petrolifero dei profitti raggiunti nel 2022: ben 39,9 miliardi di dollari, un record nei suoi 115 anni di storia, il doppio rispetto ai 19,3 miliardi del 2021. L’assist glielo ha fornito la guerra in Ucraina, con l’aumento esponenziale del costo dell’energia. Ne è seguito qualche giorno fa un addebito fiscale straordinario di 1,9 miliardi, da suddividere tra Regno Unito ed Ue.

LA NOTIZIA DEI PROFITTI RECORD ha acuito il dibattito sulla relativa tassazione. Dagli Stati Uniti all’Europa e al Regno Unito ci si interroga sul divario tra l’aumento dei prezzi che sta impoverendo i cittadini e i guadagni da capogiro delle compagnie dell’oil&gas. E, mentre il business procede a gonfie vele, la crisi climatica globale ci presenta il conto dei danni prodotti dall’estrazione dei combustibili fossili. «Il vascello White Marlin – spiega Greenpeace – trasporta un’unità galleggiante di produzione, stoccaggio e scarico per un progetto di potenziamento che consentirà alla Shell di spremere fino all’ultima goccia di petrolio dal giacimento di Penguins».

AL PICCO DI PRODUZIONE, il progetto dovrebbe produrre l’equivalente di 45 mila barili di petrolio al giorno e Shell ha suggerito che potrebbe aprire ulteriori aree di esplorazione. Chiediamo che invece si investa su una giusta transizione verso un’energia economica, pulita e rinnovabile, che porti reali benefici a persone, comunità, lavoratori e lavoratrici”. Di tutt’altro parere è Shell, che con l’ingiunzione ha portato in tribunale tutti. Alle due imbarcazioni utilizzate dagli attivisti, la Sea Beaver e la Arctic Sunrise, rispettivamente battenti bandiera britannica e olandese, è stato fatto divieto di avvicinarsi oltre i 500 metri dalla nave White Marlin, di proprietà della Boskalis, la società a cui Shell ha affidato il trasporto della piattaforma petrolifera. Agli attivisti che hanno occupato è stato dato l’ordine di concordare un piano con il capitano della White Marlin per sbarcare in sicurezza, una volta arrivati in Norvegia. Silja Zimmermann, originaria di Colonia, è l’alpinista salita a bordo con il francese Pascal Havez lunedì mattina presto.

ALLE MINACCE DI CARCERE e multe di Shell, loro hanno reagito andando a dare manforte ai primi quattro, Carlos Marcelo Bariggi Amara, argentino, Yakup Çetinkaya, turco, Imogen Michel, inglese, e Usnea Granger, statunitense. Li hanno raggiunti nel Canale della Manica, con il trimarano Merida di Greenpeace France, sui cui c’erano anche altri tre attivisti, Nonhle Mbuthuma dal Sudafrica, Hussein Ali Ghandour dal Libano e Noa Helffer dall’Italia, e due piccole imbarcazioni.

Hanno viveri e acqua a sufficienza per sopravvivere ancora qualche giorno. La navigazione procede spedita. Le comunicazioni con la terraferma non sono così agevoli. Lo si apprende ascoltando l’audio che Silja Zimmermann ha inviato alla nostra redazione: un suono pesante metallico scandisce le sue parole. Gli si contrappone la sua voce altrettanto decisa: «Sto bene – dice – sono salita a bordo lunedì insieme ad un altro attivista francese, Pascal. Eravamo piuttosto esausti dopo una giornata molto intensa ma, per fortuna, ci siamo riposati un po’ e siamo felici di essere qui ora».

NONOSTANTE SI SIA PREPARATA, Silja ammette di avere paura: «Non sappiamo cosa accadrà quando arriveremo nel porto norvegese. C’è il rischio che veniamo portati via. Ho paura sì – spiega – non è confortevole trascorrere dei giorni su una piattaforma petrolifera, ma se questo serve ad aumentare la consapevolezza non vedo altra scelta». A Shell, considerata dagli ambientalisti tra i più grandi inquinatori globali, gli si chiede di cambiare rotta, di puntare sulle rinnovabili, sull’energia pulita e di pagare il conto salato dei danni che le si imputano. Danni, peraltro, messi nero su bianco da una sentenza dalla portata storica, che il 26 maggio 2021 la Corte dell’Aja ha emanato condannando la Royal Dutch Shell a ridurre le sue emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019.

LA SUA ATTIVITÀ INDUSTRIALE è stata ritenuta una minaccia per la vita di 17mila olandesi, affiancati da una folta rete di associazioni ecologiste. «È incredibile e decisamente inaccettabile – fa sapere Silja – che una compagnia come Shell, nel bel mezzo di una crisi climatica globale, installi una nuova piattaforma di oil&gas. È arrivato il momento di smetterla di trivellare e di iniziare a pagare».

DA UN LATO CI SONO SICCITÀ, incendi, inondazioni e altri disastri climatici, dall’altro la litania costante delle multinazionali di una transizione ancora necessaria, che giustificherebbe il perpetrarsi di un’attività industriale – onerosa per l’ambiente e i cittadini – ancorata ai combustibili fossili. Una battaglia titanica che, questa volta, si è tradotta con l’immediatezza delle immagini giunte dall’Oceano Atlantico in una scalata senza eguali. Un corpo a corpo lungo 118 metri a strapiombo sul mare in difesa della vita.