«Che cosa vuole che possa fare uno della mia età in un posto come questo. Non è solo la miniera. È che non c’è futuro. Chi può da qui va via». Ha vent’anni e chiede di non appuntare il suo nome sul taccuino. Lavora al rifornitore di benzina che sta nella piccola piazza al centro del paese, di fronte alla farmacia, accanto al mercatino della frutta. Niente nome sul taccuino. E poi silenzio. Due anziani minatori sono seduti su una panchina sotto l’ombra di due enormi bagolari e lui ascolta la conversazione. Ascolta zitto e fissa con occhi azzurri rassegnati. E venati di rancore. Ci si abitua presto a perdere, qui. Dentro ti resta la rabbia di non poter far nulla. Le leggi di un mondo sbagliato arrivano inesorabili a colpire chi meno può difendersi. E però non è vero che si perde sempre. Non è sempre vero che non ci si può difendere.

NON HANNO PERSO, hanno vinto i minatori di Gennas Tres Montes usciti ieri sera dai pozzi nei quali hanno trascorso due giorni e una notte. Ce l’hanno fatta, anche se non tutti gli obiettivi della protesta sono stati raggiunti. Nel vertice di ieri mattina, convocato a Cagliari dall’assessore regionale all’industria Anita Pili, sono passate due delle loro richieste. La Regione Sardegna, con una delibera, ingiungerà a Igea (la società controllata che gestisce le miniere sarde e quindi anche quella di Gennas Tres Montis) di pagare gli stipendi dell’ultimo mese che ancora, non si sa perché, non si sono visti. Saranno anche «corrette» le lettere di trasferimento inviate due giorni fa ai minatori che non passeranno al gruppo privato Mineraria Gerrei che da oggi rileva la gestione della miniera: niente più spostamento a Lula e a Iglesias, in zone lontanissime da casa, ma un posto alla laveria di Assemini, a soli 50 km. Mineraria Gerrei, invece, non ha ancora sciolto la riserva sulle tre richieste avanzate dai sindacati: comunicare nei dettagli il piano industriale di rilancio; mantenere gli attuali livelli retributivi per tutti i minatori che da Igea passeranno al gruppo privato; applicare, per il resto, il contratto nazionale.

Nella serata di ieri un’assemblea davanti al cancello di ingresso della miniera ha deciso che i 24 che per due giorni e una notte si sono barricati nei pozzi possono uscire. «Su trasferimenti e pagamento degli stipendi arretrati – dice Giampiero Manca, segretario generale della Filctem Cgil di Cagliari – abbiamo ottenuto ciò che volevano. Resta aperta la partita con Mineraria Gerrei. Ci batteremo perché tutte le garanzie salariali e normative previste dal contratto nazionale siano rispettate. I tentativi di ridurre, o peggio di cancellare, il ruolo del sindacato saranno contrastati».

Due dei minatori – foto Ansa

DAVIDE È UN DELEGATO sindacale della Cgil. Ha lavorato nelle gallerie per trent’anni. Con lui scendiamo nella vallata dove ci sono i pozzi. Arriviamo a una torre di metallo che svetta per venti metri sopra la palazzina della direzione, un cubo grigio, anonimo. Davanti all’imbocco dei pozzi – un cancello metallico, vernice verde mezzo divorata dalla ruggine – c’è, per solidarietà, la gente di Silius. Ci sono le compagne dei minatori che stanno a cinquecento metri di profondità. Luisella racconta: «Mai avrei pensato che dopo una vita in galleria a mio marito qualcuno dicesse che deve lasciare la sua casa, i suoi figli, il suo paese per andarsene a lavorare a Lula, in Barbagia, a 200 km da qui. È possibile che tu lavori e sei solo una pedina da spostare? Non sei una persona, sei l’ingranaggio di un sistema. E non decidi nulla, devi solo fare quello che ti dicono. Può essere così?». La voce di Luisella si rompe per la commozione e per la rabbia. Ma continua: «Non è solo Silius che ci perde se qui chiudono. C’è tutto il Gerrei, tanti altri paesi. Una zona dove quarant’anni fa a lavorare nelle miniere erano in seicento. Con l’indotto si arrivava a mille posti di lavoro. Oggi è un deserto. A Gennas Tres Montis sono rimasti in 34. E oltre questi pozzi che cosa c’è? Non c’è niente. Un po’ di allevamento. Le pecore, come sempre. Per forza la gente se ne va. Spopolamento, lo chiamano: i morti sono più dei nuovi nati e le nostre comunità si assottigliano, destinate, se continua così, a sparire».

Linda ha in braccio una bimba di appena sei mesi che si chiama Flora. «Ho anche un altro figlio – dice – e ha diciotto anni. Per lui e per Flora a che futuro posso pensare? Anche mio marito è tra i trasferiti. Ma non è solo questione che ti sbattono lontano di casa o non ti pagano lo stipendio. È che qui c’è un territorio intero che muore».

DA SINDACALISTA, Davide cerca di indicare un modo possibile di reagire, di fare girare la ruota in un’altra direzione. Ricorda le lotte degli anni Ottanta. «Gli anni d’oro – dice – battaglie dure per ottenere condizioni di lavoro accettabili e diritti certi. La sicurezza era un disastro e dovevi farti sentire, se volevi lavorare senza correre il rischio di rimanerci. E abbiamo ottenuto molto». E adesso? «Adesso è tutto diverso, più difficile, ma sinché ci sono margini di azione non bisogna mollare. Se, in fatto di relazioni con il sindacato, qualcuno per il Gerrei pensa al modello Amazon, è meglio che se lo tolga subito dalla testa».
I margini di azione. I minatori escono dei pozzi. Per metà l’hanno spuntata. Per l’altra metà bisognerà ancora combattere. Resistere perché non ci siano più gli occhi di un ventenne che guardano muti.