Charles F. Sabel è professore di diritto e scienze sociali alla Columbia Law School. Il suo ultimo libro, Fixing the Climate (Princeton University Press, 2023, con D.G. Victor), riorienta radicalmente il pensiero sulla crisi climatica.

Charles, tu sostieni che le misure sin qui messe in campo abbiano sostanzialmente fallito. Eppure, ci dici anche che la soluzione è davanti ai nostri occhi.

La tesi generale del libro è che, nonostante trent’anni di tentativi, le soluzioni globali basate su regole uniformi, come una tassa sul carbonio o obiettivi concordati a livello globale, non abbiano funzionato. Il loro fallimento è la realtà da cui partire. Ciò che sta funzionando, invece, sono gli sforzi per raggiungere una transizione verde in settori specifici come i veicoli elettrici, il fotovoltaico o l’eliminazione delle sostanze che distruggono l’ozono, Così come le sperimentazioni a livello di luoghi specifici. In altre parole, i tentativi di creare un (apparentemente) semplice sistema globale di regole e incentivi per indurre una transizione verde sono falliti, mentre gli sforzi concreti – a livello di filiera o di luogo – per affrontare i principali ostacoli alla transizione stanno avendo successo.

Se è così, perché queste soluzioni non vengono adottate dappertutto?
Mentre il Protocollo di Montreal del 1987 sulle sostanze che danneggiano lo strato di ozono è sotto gli occhi di tutti e funziona, il suo successo è stato erroneamente attribuito alla presenza di alternative tecnologiche pre-definite e al ruolo di obiettivi vincolanti. Uno dei compiti del libro è invece di fornire una spiegazione diversa. Si tratta di un modello decentralizzato ma coordinato, o “sperimentalista”, orientato alla soluzione di un problema specifico. Questo tipo di problem solving può diventare la base di un nuovo tipo di globalizzazione.

Pensi che in tutto ciò sia in gioco un nuovo ruolo dello Stato? Intendo il cosiddetto «Stato innovatore» suggerito dai lavori di Mariana Mazzucato.
Non c’è dubbio che il ruolo dello Stato sia in via di ridefinizione, anche a causa delle sfide poste dall’emergenza climatica. Siamo però ancora molto lontani da un mondo in cui si possa assumere che gli Stati abbiano le capacità di mantenere i propri impegni, specialmente laddove tali impegni comportano la messa in discussione dello status quo. Ci siamo liberati da alcuni degli aspetti peggiori dell’ortodossia, ma facciamo ancora fatica a trovare una via da seguire. Se si guardano i dettagli, come vengono spesi i soldi, quali tipi di progetti sono ammissibili, come verranno valutati i risultati, c’è molta ambivalenza su quale dovrebbe essere esattamente il ruolo dello Stato.

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Confrontando Montreal e Kyoto, tu sostieni che, nonostante le differenze, i due casi sono, in linea di massima, comparabili? È un punto controverso. Ci spieghi perché?
Partiamo dai motivi spesso addotti per distinguerli. Il primo tema è che la comprensione dei meccanismi alla base della vulnerabilità dello strato di ozono fosse ben consolidata e, quindi, non vi fosse alcun motivo per ritardare l’azione. La scienza del cambiamento climatico, invece, è ancora immatura, consentendo agli scettici di trasformare le aree di incertezza in dubbi sulla validità delle prove scientifiche, tali da ridurre la pressione sull’azione collettiva. Un secondo argomento riguarda la disponibilità di alternative tecnologiche. Si diceva che i sostituti delle sostanze che riducono lo strato di ozono fossero ben noti o alla portata dei principali produttori. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, continua l’argomentazione, la situazione è ancora una volta l’opposto: alternative praticabili alla “tecnologia sporca” si trovano su un orizzonte così lontano che è molto più facile immaginarle che attuarle.

E tu sostieni che questo è falso?
È un resoconto molto parziale. La conoscenza scientifica sullo strato di ozono era tutt’altro che matura alla fine degli anni ’80, quando il Protocollo entrò in vigore. Alcune delle reazioni chiave che distruggono l’ozono nella stratosfera antartica, in particolare quelle che comportano l’esposizione diretta al sole estivo, erano ben note; altre, che si verificavano ai bordi delle gelide nubi stratosferiche, non lo erano affatto. Anche il presunto ottimismo tecnologico merita un esame approfondito. Le stime degli esperti all’epoca indicavano che si potessero trovare sostituti funzionanti per il 50% dei prodotti che danneggiavano lo strato di ozono, più o meno la stessa incertezza che oggi caratterizza le discussioni intorno a settori privi di soluzioni tecnologiche pronte da applicare.

Nel caso di Montreal non è stata la fiduciosa aspettativa verso soluzioni indolori che ha portato alla risoluzione dei problemi, quanto la formazione di processi decisionali decentrati a livello di filiera e settore. Processi decisionali i cui protagonisti sono stati attori pubblici e privati con una conoscenza pratica dei problemi da affrontare. Tutto ciò non significa negare che la de-carbonizzazione dell’economia sia un’impresa più complessa della protezione dello strato di ozono. Ma quella differenza pone sfide simili all’esplorazione collaborativa in condizioni di incertezza. Per questo, è giunto il momento di imparare dalle vere lezioni del successo di Montreal.

*Una versione più ampia dell’intervista è pubblicata dalla rivista online sociologica.unibo.it