Dalle sopraelevate che lambiscono il quartiere musulmano di Zarif, a nord di Beirut, arriva distinto il suono di molte sirene. Nel tardo pomeriggio di sabato 18 gennaio è già un via vai di ambulanze che si fanno largo tra colonne di fumo, pneumatici in fiamme e barricate. Trasportano i feriti lontano dall’epicentro degli scontri tra le forze interne di sicurezza libanesi e i manifestanti antigovernativi che assediano il parlamento al centro di Beirut.

LA CROCE DEL CAMPANILE di San Giorgio, avvolta da un denso fumo nero, fa da riferimento a chiunque tenti di raggiungere il cuore dell’azione. Avvicinarsi non è semplice in una notte di guerriglia come questa e la probabilità di svoltare l’angolo e incappare nelle squadre delle Forze interne di sicurezza libanesi è alta. Nel centro di Beirut i gas lacrimogeni rendono l’aria irrespirabile già nel pomeriggio.

I manifestanti l’avevano preannunciato già dal lunedì precedente: sarebbe stata una «settimana della collera» contro l’immobilismo dell’élite al potere. Ma la protesta ha avuto il suo picco durante il fine settimana. Sabato, in particolare, da due quartieri di Beirut al grido di Tawra, rivoluzione, due cortei si sono mossi con l’obiettivo di convergere davanti al parlamento, ormai simbolo della corruzione e dei temporeggiamenti della classe politica, incapace di dare risposte alla piazza.

Con una straordinaria energia, non certo nuova nella drammatica storia del Libano, la gente si è riappropriata dello spazio pubblico, rivendicando strade e piazze per far sentire le proprie ragioni. Un accampamento permanente è stato allestito nella centralissima piazza dei Martiri, dove svetta l’ormai famoso “pugno” della rivoluzione. Viceversa, non sono stati pochi, nei mesi scorsi, gli episodi che hanno visto leader politici, banchieri e rappresentanti del potere rifugiarsi in ristoranti di lusso, negozi e abitazioni private assediati da manifestanti inferociti e infine costretti a fuggire.

ANCHE LA PRESENZA di militari e poliziotti ai checkpoint che blindano i quartieri residenziali e benestanti di Beirut è aumentata visibilmente negli ultimi giorni. Questo rovesciamento di senso ha conferito una forte esposizione mediatica al movimento della tawra che, seppur privo di una leadership definita, ha saputo imporsi nel dibattito pubblico e coagulare un consenso diffuso intorno alle proprie rivendicazioni.

Da ottobre il movimento chiede il rinnovo dell’intera classe politica libanese e la formazione di un nuovo governo formato da tecnici che possano portare il Libano fuori dalla crisi economica.

In dicembre i manifestanti hanno ottenuto la caduta del governo Hariri, e il nuovo esecutivo stenta a nascere: Hassan Diab, professore universitario sunnita ma appoggiato – tra gli altri – dai partiti sciiti Hezbollah e Amal, dopo aver annunciato di essere a un passo dalla soluzione del rebus, nella giornata di venerdì ha chiesto ulteriore tempo, scatenando la collera delle piazze.

MOLTE LE CATEGORIE che hanno manifestato. Tra queste gli studenti, sempre numerosi, gli importatori che non riescono ad accedere alle valute pregiate per i pagamenti, i consumatori il cui potere d’acquisto è eroso dalla svalutazione monetaria e dall’inflazione sui beni d’importazione e i medici che lamentano la mancanza di farmaci e l’impossibilità di garantire cure ai pazienti ricoverati.

In questo quadro già drammatico, la banca centrale libanese dovrà a stretto giro preoccuparsi della scadenza di 1,2 miliardi di Eurobond prevista a marzo. C’è già chi parla di default programmato, chi di «ristrutturazione del debito» con un piano di scambio verso titoli a più lunga scadenza per quelli posseduti dalle banche private. Essendo il Libano uno dei paesi più indebitati del mondo, i cosiddetti piani di ristrutturazione rischiano però di pesare sulle spalle dei ceti sociali già provati dall’attuale situazione economica.

IL GRIDO DI «TAWRA» ha quindi di nuovo invaso prepotentemente le piazze libanesi. A Beirut, al termine di due cortei che sabato hanno attraversato la città, gli scontri tra manifestanti e polizia si sono protratti per quattro ore in mezzo a un fitto lancio di lacrimogeni che ha provocato l’intossicazione di decine di persone. Alle 20 le vie adiacenti a piazza dei Martiri erano un campo di battaglia. Al lancio di petardi e pietre la polizia ha risposto con idranti e una pioggia di candelotti.

LA CROCE ROSSA LIBANESE ha riferito di aver soccorso almeno 160 persone tra intossicati e feriti soltanto nelle prime ore di sabato, ma il bilancio è salito pesantemente con gli scontri che si sono ripetuti domenica sera. Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie hanno rilevato un uso sproporzionato della forza nei confronti di manifestanti e giornalisti, spingendo la ministra dell’Interno Raya Haffar El Hassan a un tweet di scuse.

Nella tarda serata di sabato, tuttavia, hanno cominciato a circolare sotto l’hashtag #Lebanonprotests numerosi video che mostravano nuove violenze della polizia, che ha fatto irruzione anche all’interno della grande moschea al Amin dove si erano rifugiate persone di fede cristiana e musulmana.

STAVOLTA, PERÒ, LA REAZIONE del mondo politico è stata tutta a difesa degli agenti rimasti feriti negli scontri. L’ex premier Saad Hariri ha definito gli scontri «sospetti, folli e inaccettabili», mentre la ministra El Hassan ha accusato i manifestanti di aver deliberatamente attaccato la polizia.

Sui social è partita una campagna in solidarietà dei colpiti da proiettili di gomma sparati dalla polizia, mentre nel vertice di sicurezza tenutosi ieri il presidente Aoun ha dichiarato che le proteste violente saranno represse. Tra scambi di accuse reciproche, la formazione del governo non sembra ancora vicina e nuove giornate di collera si profilano all’orizzonte.