La rendita non è una categoria economica astratta, ha molto a che fare con la vulnerabilità del territorio, bene comune per eccellenza e con la crescita delle disuguaglianze sociali.

Da decenni il territorio è lasciato in balia di un’espansione urbana incontrollata, che ha generato periferie degradate, abusi edilizi, infrastrutture e servizi inefficienti. Più che alla difesa dell’ambiente e al benessere dei cittadini, il governo del territorio – con il corollario di leggi, regolamenti, incentivi fiscali e condoni – ha guardato agli affari dei proprietari fondiari, delle imprese di costruzione e delle banche. Esiste, da molto tempo, un rapporto malato tra economia e territorio.

La causa prima dell’insicurezza e delle sciagure sta nel connubio di interessi politici ed economici, più che nel cambiamento climatico. A partire dagli anni Ottanta, con la deregulation urbanistica, si è costruito ad una media di 200 mila unità abitative all’anno. Un consumo di suolo senza freni: 77 km quadrati occupati ogni anno da case, capannoni, strade e quant’altro (fonte Ispra).
L’edilizia popolare e l’equo canone sono stati cancellati. L’aumento degli affitti e una ingiustificata asimmetria di trattamento fiscale tra proprietà e locazione hanno spinto milioni di famiglie a investire nel mattone, dando luogo, anche per questa via, a un gigantesco trasferimento di risorse dal lavoro alla rendita.

I programmi di riqualificazione o di «rigenerazione» urbana, inoltre, hanno assunto le sembianze di edifici, infrastrutture e servizi funzionali agli investimenti del mercato immobiliare e al gran bazar del consumismo di massa.

Nelle grandi città e nelle località turistiche e d’arte, i fondi di investimento fanno shopping di aree di pregio e di immobili da adibire ad alberghi di lusso o a sedi di grandi gruppi multinazionali e finanziari; interi quartieri un tempo popolari diventano zone residenziali per ricche famiglie (gentrification); le seconde e le terze case vengono monopolizzate da piattaforme per l’affitto breve (Airbnb); altre piattaforme puntano al controllo del commercio, dei trasporti e di tutto quanto sia fonte di guadagno. Lo sviluppo «locale» è un anello dell’economia «globale».

La politica del glocal, acronimo che indica appunto la competizione territoriale nell’attuale paradigma economico, ha messo in moto dinamiche distruttive del territorio, ha acuito il dissesto idrogeologico, ha alimentato fenomeni di abusivismo e di illegalità.

Le èlites che operano nel «villaggio globale» sono poco interessate alla bellezza urbana, alla città come spazio condiviso, luogo di senso della comunità. Nella loro ottica, la città è uno spazio avvolto nella «rete» di internet e della rendita, la piazza virtuale sostituisce la piazza reale, il business viene prima dei legami sociali.

Si è rimpicciolito lo spazio pubblico, si sono innescati processi di isolamento, di sradicamento e anomia. La globalizzazione, dunque, oltre a rompere il nesso tra sviluppo e progresso (l’assillo di Pasolini), ha indebolito anche la coesione sociale.

Siamo ancora certi che «l’aria della città rende liberi»? Nel recente convegno dell’Anci non c’è stata un’adeguata riflessione sui danni sociali, ambientali e civili derivanti dalle trasformazioni del territorio.

E’ difficile pensare che i sindaci non abbiano alcuna responsabilità sul consumo incontrollato del suolo, sull’abusivismo edilizio e sullo scarso senso civico che comportano.

Eppure molti di loro sorvolano sull’argomento, anzi rivendicano una sorta di scudo contro il reato di abuso d’ufficio. Il Pnrr, sostengono, richiede decisioni rapide in tema di bandi, di appalti, di assunzioni.
Vero, sacrosanta è, tuttavia, la preoccupazione dei cittadini per procedure truccate, scelte sbagliate, soprusi e violenze sull’ambiente e sui beni culturali. La lotta per il cambiamento non può che ripartire dai Comuni.

Restituire la «città ai cittadini» – come recitava un vecchio slogan della sinistra – significa riprendere il controllo democratico della città e del suo territorio, tornare cioè ad un’amministrazione non etero-diretta da logiche di calcolo economico, bensì rispettosa della volontà e dei bisogni concreti delle comunità locali.

La città dei cittadini è alternativa alla città competitiva. La prima incarna i valori d’uso legati alla memoria storica degli spazi urbani, tende a conservarne paesaggio, socialità e bellezza architettonica, fa della cura, della messa in sicurezza e della manutenzione il segno distintivo del governo del territorio. La seconda considera gli spazi urbani a supporto dei valori di scambio, vettori del traffico commerciale, aree edificabili, centri direzionali, in sintesi, mero ambiente per gli affari e per la crescita quantitativa.

La città dei cittadini e la città delle imprese esprimono, perciò, due significati diversi. In un caso si punta ad un equilibrio sostenibile dell’uomo con l’ambiente che lo circonda, nell’altro tutto è subordinato ad un modello di sviluppo che porta vantaggi per pochi e disastri umani e materiali per molti.