Dici «redditometro» e subito volano gli stracci nel governo e tra i partiti che lo compongono. Tanto più che il decreto ministeriale è già da lunedì in Gazzetta ufficiale. Meloni si comporta come se non ne sapesse nulla. E «congela» tutto, lasciando che sia il viceministro delle finanze Leo a gestire la patata bollente al prossimo Consiglio dei ministri.

A prima vista pare strano, o meglio suscita sospetto, che a emanare un simile decreto, teoricamente contro l’evasione fiscale, sia proprio il governo Meloni, fin qui distintosi per i diciotto condoni a vario titolo e per avere inserito nella delega fiscale il concordato preventivo, in base al quale l’Agenzia delle entrate si dovrebbe mettere d’accordo con il contribuente su quante tasse pagherà nei successivi due anni. In più siamo in campagna elettorale e si sa che l’argomento fiscale è inviso particolarmente all’elettorato potenzialmente di destra. Vale perciò la pena di vederci più chiaro.

La norma, ovvero l’accertamento sintetico del reddito, trae le sue origini dal lontano 1973 (Dpr 600). Poi vi mise mano Tremonti nel 2010, durante l’ultimo governo Berlusconi, con l’intenzione a parole di potenziarne l’efficacia senza però ottenere risultati incisivi. Anche Renzi lo ritoccò nel 2015 per giungere infine nel 2018 al provvedimento del governo Conte-Salvini che, con il cosiddetto «decreto dignità», non cancellava affatto il «redditometro» ma anzi richiedeva un nuovo provvedimento attuativo con l’indicazione puntuale delle voci di spesa per individuare la reale capacità contributiva del cittadino.

Si può dire quindi che il decreto, che tanto fa imbestialire sia Salvini che Tajani, non è altro che un atto dovuto. In effetti sulla materia era intervenuta nel 2022 anche la Corte dei Conti la quale lamentava la scarsa efficacia dello strumento e ne richiedeva un’intensificazione dell’utilizzo sulla base degli evidenti incrementi patrimoniali e delle manifestazioni di agiatezza riscontrabili in una parte della popolazione.

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Zuffa sul «redditometro». Un’altra toppa di Meloni

Il nuovo decreto infatti contiene l’elencazione di 56 voci di spesa censite e soprattutto due quasi novità. La prima è che la presunzione di reddito viene calcolata non facendo riferimento alla spesa media, ma a quella minima ricavata dall’indagine Istat sui consumi delle famiglie. La seconda, e qui sta il nocciolo, è che nel contraddittorio ciò che prevale sulla stima teorica sono le informazioni fornite dal cittadino. Argomento questo su cui insiste particolarmente, a propria difesa, il ministro Leo quando afferma che non si lascia campo libero alla discrezionalità dell’amministrazione finanziaria.

Ma allora la contraddizione fra questo decreto e il concordato preventivo che dovrebbe entrare in funzione a giugno, viene di molto ridimensionata e non credo si faccia peccato pensare che il primo è funzionale al secondo. Nel senso che si vuole spingere il contribuente a incamminarsi sulla strada di una contrattazione con l’amministrazione finanziaria che può metterlo al sicuro per i prossimi due anni e nello stesso tempo può favorire un ingresso più rapido di risorse nelle casse dello Stato.

Meno soldi, ma subito, con buona pace della giustizia fiscale. Infatti non è difficile intuire che il percorso di questo decreto – che scatta solo nel caso in cui si presuma che i redditi dichiarati siano del 20% inferiori a quelli reali; che si articola in un doppio contraddittorio fra il contribuente e l’amministrazione fiscale, lasciando al primo la possibilità di dimostrare l’inesattezza della quantità di reddito che gli viene imputata – appare fin d’ora tutt’altro che veloce e lineare, con la probabilità di fare la fine delle precedenti versioni di cui appunto la Corte dei Conti lamentava l’inefficacia.

D’altro canto qualche segnale il governo lo doveva pur dare, seppure in controtendenza più apparente che reale con la sua politica, a fronte dei continui richiami, finora verbali, che vengono dalle istituzioni europee riguardo alla leggerezza con cui si sono decisi condoni, bonus e sostegni vari ad esclusivo vantaggio di ceti che stanno certamente al fondo della gerarchia sociale. Lo scontro sul superbonus fra Giorgetti e Tajani ne è la conseguenza. Anche la melonomics, fatta di liberismo condito da cattiveria sociale, ha dei limiti. Più li rende confusi meglio è. Non è moltiplicando decreti che si combatte l’evasione, ma con la volontà politica di farlo, rafforzata dalla sofisticata strumentazione di indagine già esistente. Ma se manca la prima, la seconda resta inerte o rema contro.