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I big fossili alla sbarra, fioccano giuste cause

Campagna contro i big fossiliCampagna contro i big fossili

Energia Triplicano ogni anno i processi (oggi più di 2 mila) ai responsabili della crisi del clima. 86 riguardano grandi aziende petrolifere come BP, Chevron, Eni, ExxonMobil, Shell e TotalEnergies

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 10 ottobre 2024

Lo snodo è l’accordo di Parigi sul clima, raggiunto nel dicembre del 2015. Da quel giorno a oggi il numero di cause intentate ogni anno contro le maggiori aziende produttrici di combustibili fossili è quasi triplicato (da 5, nove anni fa, a 14 nel 2023).

Lo rivela The Big Oil in Court, l’ultimo rapporto di Oil Change International e Zero Carbon Analytics, due organizzazioni di ricerca molto attive internazionalmente.

LE BIG OIL – RESPONSABILI DEL 69% delle emissioni di anidride carbonica causate dall’uomo – finiscono così alla sbarra. Sono ben 86 le cause climatiche intentate contro le più grandi aziende produttrici di petrolio, gas e carbone. Tra queste si contano Bp, Chevron, ExxonMobil, Shell, TotalEnergies e l’italiana Eni, portata in tribunale da Greenpeace e ReCommon. Complessivamente, due casi su cinque riguardano richieste di risarcimento per danni da cambiamento climatico legati agli inquinanti.

«NESSUNA DELLE PRINCIPALI compagnie petrolifere e del gas – sottolinea David Tong di Oil Change International, uno degli autori del rapporto – si impegna a fare il minimo indispensabile per evitare il caos climatico, quindi le comunità di cittadini le stanno portando in tribunale. L’ondata di cause legali contro le Big Oil potrebbe avere gravi ripercussioni sui loro profitti, disincentivare gli investimenti nelle infrastrutture per i combustibili fossili, ridurre il valore aziendale e mettere in discussione la loro licenza sociale di continuare a danneggiare le comunità di tutto il mondo».

IL RAPPORTO THE BIG OIL IN COURT» è la prima analisi approfondita sull’ondata crescente di controversie legali, rivolte ai giganti dei combustibili fossili, sul clima. Sono tre le categorie di cause cresciute in modo significativo: il risarcimento dei danni climatici contro le aziende ritenute responsabili dei danni ambientali e alla comunità (38% dei casi, la parte più consistente); le contestazioni di affermazioni pubblicitarie ingannevoli sul clima e sull’ambiente da parte delle multinazionali (16%); gli obblighi per le aziende di ridurre le proprie emissioni (12%). La maggior parte dei casi riguarda aziende negli Stati Uniti (58%) e in Europa (24%); ExxonMobil e Shell hanno il record di cause contro.

NEL MARE MAGNUM CI SONO delle piccole storie esemplificative come quella di Saúl Luciano Lliuya, contadino di Huaraz, che nel 2015 ha fatto causa a Rwe, produttore tedesco di energia elettrica. L’iter è ancora in corso. Lliuya sostiene che le emissioni di gas serra dell’azienda contribuiscono allo scioglimento di un ghiacciaio vicino a casa sua: questo causerebbe inondazioni che metterebbero a rischio 50 mila residenti. Secondo l’accusa, Rwe dovrebbe rimborsare parzialmente Lliuya e le autorità locali per i costi delle difese contro le inondazioni. «Le persone come me – racconta – sono in tribunale perché i nostri mezzi di sostentamento sono a serio rischio e chiediamo ai giudici di ritenere responsabili le compagnie di combustibili fossili». Una mano alle cause la forniscono gli scienziati, in quanto sempre più in grado di collegare specifici eventi meteorologici estremi alle emissioni di combustibili fossili. Ecco perché le richieste di risarcimento spaventano le Big Oil, aumentando i rischi finanziari e di responsabilità che le compagnie devono affrontare. Si stima che ExxonMobil, Shell e Bp siano responsabili di costi legati al clima per almeno mille miliardi di dollari ciascuna, un valore simile ai loro profitti negli ultimi tre decenni.

LE AZIENDE SI DIFENDONO con il greenwashing, una mano di verde che prova a lavare il nero. Non sempre va bene. Le cause, che contestano la pubblicità ingannevole delle Big Oil accusate di fare affermazioni false sul clima e sull’ambiente, sono infatti spesso vincenti: quasi tutte le denunce portano a sentenze contro le società o al ritiro delle pubblicità. È il caso dell’organizzazione no-profit ClientEarth che aveva denunciato all’Ocse la multinazionale britannica Bp, accusata di violare le linee guida internazionali e di ingannare il pubblico con una campagna pubblicitaria fuorviante sugli investimenti nelle rinnovabili, quando oltre il 96% della spesa annuale di Bp viene destinato a petrolio e gas. Risultato: spot ritirato.

LE CAUSE PER LA RIDUZIONE delle emissioni vengono intentate contro le Big Oil per la mancata definizione e attuazione delle riduzioni delle emissioni allineate all’Accordo di Parigi. Nel 2021, una sentenza storica di un tribunale olandese ha ordinato a Shell di ridurre le proprie emissioni del 45% entro il 2030, creando un precedente come primo obbligo legale per una grande azienda di combustibili fossili di ridurre le emissioni. Shell ha presentato ricorso e la decisione è prevista per questo autunno.

ANCHE IN ITALIA QUALCOSA si sta muovendo, con due principali cause climatiche: Giudizio Universale contro lo Stato e La Giusta Causa contro Eni, definito «il maggior emettitore di Co2 in Italia». Il primo contenzioso climatico contro lo Stato italiano si è arenato a marzo con la decisione del Tribunale di Roma di non decidere. Si è chiuso con una pronuncia di «inammissibilità». La causa era promossa da 203 attori tra cui 24 associazioni, in testa A Sud, e 179 individui. I richiedenti chiedevano di riconoscere che l’insufficienza delle politiche climatiche in campo minaccia il godimento dei diritti fondamentali e, di conseguenza, di imporre allo Stato di rivedere al rialzo gli obiettivi di riduzione delle emissioni. La seconda partita, invece, è ancora aperta e tocca ora alla Cassazione stabilire se in Italia si possono intentare cause climatiche.

A luglio, la seconda sezione civile del Tribunale ordinario di Roma ha rinviato alla Suprema Corte la decisione sulla procedibilità del processo civile intentato da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini nei confronti di Eni e dei suoi azionisti Cassa Depositi e Prestiti e Ministero dell’Economia e delle Finanze, ritenuti responsabili di danni alla salute, all’incolumità e alle proprietà, nonché per aver messo, e aver continuato a mettere, in pericolo gli stessi beni per effetto delle conseguenze del cambiamento climatico. La causa chiede l’accertamento della responsabilità per danni cagionati ai cittadini ricorrenti e la condanna dell’azienda a ridurre del 45% le emissioni effettive di gas climalteranti entro il 2030, cambiando il piano industriale.

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