Hollywood, non tutto è Golden ciò che luccica
Ars gratia artis La collina del cinema e il tardo capitalismo: una relazione strettissima, e difficile. Un esempio viene dalla recente storia dei Golden Globes, ambiti premi assegnati ogni anno prima degli Oscar
Ars gratia artis La collina del cinema e il tardo capitalismo: una relazione strettissima, e difficile. Un esempio viene dalla recente storia dei Golden Globes, ambiti premi assegnati ogni anno prima degli Oscar
A gennaio a Hollywood verranno assegnati i Golden Globes. Per 15 anni ho fatto parte, in quanto corrispondente del manifesto, della giuria, ovvero l’associazione della stampa estera che visionava film, intervistava attori e registi e votava per i premi. Quest’anno però i prestigiosi premi non saranno votati dall’associazione della stampa estera: la Hollywood Foreign Press Association (HFPA), fondata nel 1944, è stata disciolta, le sue attività stampa sospese ed i membri assunti come impiegati della Eldridge Corporation, generosamente retribuiti per assegnare i premi. Dei 90 membri originali, 4 hanno deciso di non firmare quel contratto, fra cui il sottoscritto.
La società che ha rilevato i Globes, facendone i primi premi cinematografici interamente controllati da un’azienda privata, è una holding dalle vaste partecipazioni che vanno dai club sportivi dei Dodgers di Los Angeles e Chelsea Football Club, all’albergo Beverly Hilton (dove si tiene la cerimonia di premiazione), la distributrice cinematografica A24 e molte altre società.
Fra queste vi sono, attraverso la consociata Penske Media, le principali testate specializzate di Hollywood: Variety, Hollywood Reporter e Deadline, oltre a Rolling Stone e Billboard. Un’altra «subsidiary» è la Dick Clark Productions, che dei Globes ogni anno produce la cerimonia.
La privatizzazione dei Golden Globes è sintomatica delle tendenze monopolistiche nell’industria culturale e del consolidamento in atto nella Hollywood di era digitale (nonché della crisi endemica del giornalismo). Rappresenta anche l’epilogo di una saga di glamour e regolamento di conti hollywoodiani, potere e venalità che da sempre alimentano la industry ancor più, se possibile, dopo il matrimonio con Silicon Valley.
La causa scatenante del clamoroso tracollo della HFPA sono state le pratiche discriminatorie dell’associazione, che fino al 2021 non contava iscritti neri. Che il pretesto sia stato un presunto pregiudizio razziale, è tuttavia più indicativo del momento politico di un’industria, e una società, che fanno i conti con sistemiche iniquità, che di una effettiva volontà discriminatoria. La HFPA aveva certamente un problema di inclusione, ma questo riguardava soprattutto un riflesso protezionista che rendeva virtualmente impossibile l’ammissione di nuovi membri in generale. Ogni nuova domanda di iscrizione doveva infatti venire approvata dai veterani con un forte interesse a proteggere le esclusive giornalistiche cui avevano accesso.
Le conferenze stampa seguite dai membri, fino a 300 all’anno, erano concesse in modo «strategico» dagli uffici stampa, con un occhio ad accattivarsi il favore dei circa cento elettori dell’associazione fondata proprio per cercare maggiore accesso ad uno studio system che ignorava la stampa estera. In virtù dei famosi premi, e delle ricadute che questi hanno sui potenziali incassi dei vincitori, la HFPA aveva finito per ottenere un peso specifico fuori misura in un’industria a cui il gruppo di eccentrici giornalisti era però fondamentalmente inviso proprio per via della sua influenza.
L’importanza dei Globes permetteva ai giornalisti di avere un accesso privilegiato ad autori ed attori, tale da ingenerare il risentimento di una macchina abituata a controllare appieno le modalità di promozione. Da canto loro, il piccolo gruppo di stranieri con grande influenza e l’abitudine di spoilerare regolarmente i premi Oscar, non si era esattamente ingraziata l’establishment hollywoodiano. Quando il gruppo è inciampato, non c’è stata certo una gara per venire loro in ausilio. Il boicottaggio è stato compatto e fulminante: le conferenze stampa sono state cancellate, respinte le richieste di interviste, annullate le proiezioni. Quando alcune star come Tom Cruise, hanno iniziato a rispedire al mittente i Globi vinti, e soprattutto quando la NBC ha stracciato il contratto per la messa in onda della cerimonia, è stato chiaro che la crisi era esistenziale.
Il ripudio unanime ha messo in evidenza l’isolamento di un gruppo che il privilegio aveva reso incapace di introspezione ed evoluzione. All’interno dell’associazione i membri che avevano promosso riforme necessarie, come l’agevolazione di nuove iscrizioni, maggiori patrocini filantropici e culturali, regole deontologiche e, dopo l’omicidio di George Floyd, una maggiore sensibilità e più netta presa di posizione sulla questione razziale, erano in minoranza.
Una volta precipitata la crisi, la dirigenza ha precipitosamente adottato riforme quali l’ammissione di membri afroamericani e l’adeguamento alla retorica di inclusione aziendale.
Per l’occasione è stato ingaggiato un piccolo esercito di consulenti d’immagine e crisis manager, categoria specializzata nel tamponare scandali e riabilitare le reputazioni di politici e aziende in disgrazia. Uno studio legale specializzato è stato incaricato di stilare un piano di riforme coordinato con gli uffici stampa, che hanno dettato una serie di condizioni di maggiore controllo sulle conferenze stampa. (Oggi queste vengono fatte unicamente in remoto, spesso con domande sottoposte in anticipo al vaglio degli studios ed ammesse solo sul «prodotto» da promuovere).
La sincerità delle riforme sarebbe stata messa in dubbio perfino dal presentatore ingaggiato l’anno scorso per condurre l’ottantesima edizione. Dal palco del Beverly Hilton, Jerrod Carmichael, comico afroamericano e queer, ha dichiarato apertamente di essere stato assunto «solo perché sono nero».
Dietro le operazioni di facciata, intanto, era in atto un altro progetto: la privatizzazione dei Globi. Malgrado i lauti introiti derivanti dai diritti di trasmissione della cerimonia, l’associazione era iscritta all’albo delle non-profit.
I membri non avevano, quindi, accesso ai proventi sempre più significativi del contratto decennale con la NBC che aveva raggiunto un valore di 60 milioni di dollari all’anno.
La nuova amministrazione era invece decisa a monetizzare quel patrimonio ed a questo scopo ha concluso un accordo con Todd Boehly, il CEO della Eldridge.
Attraverso l’acquisizione della Dick Clark Production, il gruppo di Boehly aveva ottenuto una partecipazione indiretta nel Globes già nel 2013. Da allora aveva provato ripetutamente ad incrementare il proprio controllo dei Globi. Inizialmente ha spinto per l’acquisto dei diritti digitali controllati della HFPA, in seguito aveva corteggiato l’associazione per il permesso concludere accordi di esclusiva per istituire «filiali» dei premi in Cina, compresa la vendita della Dick Clark al conglomerato di Pechino, Wanda, quasi conclusa nel 2017, prima che il peggioramento dei rapporti sino-americani affondasse l’affare.
Le avances erano state respinte, ma il boicottaggio ha infine offerto al tycoon l’opportunità che aspettava, soprattutto grazie ad un consiglio di amministrazione che a sorpresa, nell’ottobre del 2021, lo ha nominato amministratore delegato della HFPA.
Da CEO, Boehly ha avuto mano libera nel promuovere la sua offerta di rilevare il «brand» e tutte le sue proprietà intellettuali, in cambio di una «professionalizzazione» in grado di sdoganare i premi come nuovamente «accettabili» da parte di Hollywood.
L’offerta «insider» del magnate conteneva molte clausole, ma quella che è bastata a convincere i membri, molti dei quali faticavano da tempo a sbarcare il lunario in un ambito di giornalismo in crisi sempre più profonda, è stata quella che riguardava un lauto stipendio fisso per la visione di film e serie TV su cui votare a fine anno. Boehly ha ventilato un radioso futuro di utili e merchandising ed una possibile partnership con «un paese mediorientale», ed il piano è stato adottato a larga maggioranza.
Il marchio è diventato esclusiva proprietà della Eldridge, i membri convertiti in dipendenti dell’ufficio personale. Agli ex-corrispondenti esteri, il proprietario ha suggerito da ora in poi di «sorridere un po’ di più e promuovere il prodotto», ovvero la kermesse che ogni anno riunisce il gotha di Hollywood in una unica sala, offrendo due preziose ed insostituibili «commodity»: un concentrato di celebrity ed una diretta televisiva dall’inestimabile valore per gli inserzionisti.
Hollywood si è sempre collocata all’incrocio fra arte e commercio, un modello di produzione industriale che malgrado l’obbiettivo primario del bilancio e della quotazione in borsa, riesce occasionalmente a sfornare grande cinema.
I recenti scioperi hanno altresì confermato come la industry sia soggetta alle stesse dinamiche prevalenti nel tardo capitalismo, compresa una forbice sempre più ampia fra i compensi della forza lavoro e quelli dei dirigenti. Questi ultimi somigliano sempre più ai magnati di Silicon Valley e la Hollywood digitale è effettivamente sempre più filiale della capitale high tech.
Non a caso il tycoon più potente viene oggi viene considerato Ted Sarandos, CEO di Netflix, l’uomo che ha traslocato il cinema online, costringendo gli studios tradizionali ad una precipitosa corsa ad aprire piattaforme proprie.
Proprio con Sarandos, fra i leader del boicottaggio della HFPA, Todd Boehly avrebbe trattato i termini della conversione dei Globes.
Da lui sarebbe ad esempio venuta l’idea di ampliare la giuria a circa 200 votanti internazionali (volontari), reclutati i 56 paesi fra critici, giornalisti freelance e «operatori di settore». Una buona idea che per coincidenza risulta utile soprattutto allo studio più globale di tutti.
Fra le novità introdotte da Eldridge quest’anno vi sono poi nuove categorie, quella dei campioni del box office, riservata a film che hanno incassato oltre 150 milioni di dollari, e quella dello standup comedy (in sola lingua inglese). Anche quest’ultimo format è una specialità Netflix che ha, non a caso, incassato 5 delle 6 nomination disponibili.
Le sinergie aziendali sono dopotutto l’anima dei buoni affari: i film prodotti dalla A24, una consociata della Eldridge, ai prossimi Globes ha collezionato un totale di 11 candidature.
La conversione commerciale dei globi d’oro è emblematica del momento monopolistico dell’industria digitale. Ciò che è avvenuto alla HFPA ha, per esempio, alcuni paralleli con la vicenda di Open Ai, trasformata di recente da non-profit di ricerca ad azienda per la commercializzazione dell’intelligenza artificiale.
Anche il licenziamento del CEO Sam Altman da parte del consiglio no-profit ed il suo reintegro a seguito della rivolta dei dipendenti, sono stati frutto di uno scontro fra idealisti ed affaristi. Ed anche in quel caso le migliori intenzioni senza scopo di lucro nulla hanno potuto davanti alla prospettiva di ricchi profitti, rigorosamente gestiti, s’intende, da professionisti.
Il caso dei Globes è singolare perché postula la commercializzazione come soluzione etica
Il caso dei Globes è singolare perché postula la commercializzazione come soluzione etica, il fatto che gran parte dei media abbiano accettato questa versione la dice lunga sullo stato dei media quasi tutti ugualmente parte di corporation – nel caso delle pubblicazioni di settore, si tratta della stessa Eldridge.
Rimediare ad una crisi di legittimità giornalistica passando al modello aziendale è singolare dato che rappresenta un’incursione sul terreno della critica, che sembrerebbe imporre la parvenza, quantomeno, di autonomia e indipendenza di giudizio.
Ma, come dimostrano i nuovi edifici Apple, Amazon e Netflix spuntati come funghi nei pressi dei vecchi studios, Hollywood sta cambiando.
L’accordo a porte chiuse, il divieto delle dichiarazioni pubbliche, il ferreo controllo sull’immagine e la blindatura del dibattito, rammentano le modalità con cui Elon Musk ha preteso di «aggiustare» Twitter. In quel caso un padre padrone ha trasformato una piattaforma funzionante di dibattito e confronto, in una fucina di provocazioni e prevaricazioni all’insegna di un liberismo travestito da libertà di parola.
Musk, acclamato in quanto «genio» e «uomo più ricco del mondo» è il prototipo di capitano d’industria di era digitale, quei nuovi oligarchi che sono profeti di un mondo di infinito potenziale, lauti profitti e stock option.
Un radioso futuro governato dal merito senza fastidiose ingerenze di governi ed enti statali, che si salda oggi con una simile retorica populista. Ricevuti da capi di governo ed invitati a convegni, i plutocrati rampanti predicano la privatizzazione ad oltranza della sfera pubblica, dai dati personali ai programmi spaziali, e sempre più spesso agiscono per assicurarsi che sia così.
Il mese scorso, uno studio della Northwestern University, ha rivelato che l’11% degli oltre 2000 miliardari del pianeta sono entrati in politica. Uno di questi è stato un capostipite in Italia, un altro ha qualche probabilità di tornare a breve alla Casa Bianca. Negli USA, vaste somme di denaro veicolate da lobby determinano indirizzi politici e, come hanno rivelato recenti indagini giornalistiche, anche i giudici della corte suprema hanno sponsor miliardari pronti ad elargire loro lauti regali.
Con i Globes è passata sotto controllo aziendale un’altra piccola fetta di cultura pop. I premi cinematografici non determineranno forse le sorti della democrazia, ma oggi sono un sintomo della privatizzazione estesa ad ogni sfera artistica e culturale.
E quando ogni decisione viene presa da chi è abituato a dare ordini ai dipendenti, si possono verificare episodi come quello che ha recentemente mandato su tutte le furie Robert De Niro. A novembre, dopo aver vinto un premio ai Gotham Awards assegnati a New York, l’attore ha visto comparire sul gobbo un discorso di ringraziamento da cui erano state rimosse tutte le critiche che aveva previsto di fare a Donald Trump. La Apple, produttrice di Killers of the Flower Moon, si sarebbe poi saputo, aveva ritenuto inopportuno che si «parlasse di politica» ed aveva semplicemente cambiato il discorso.
Un anticipo forse, o quantomeno un monito, sulle conduzioni aziendali di politica e cultura.
I nuovi Globes sono oggi pienamente integrati nel complesso promozionale-industriale
I nuovi Globes sono oggi pienamente integrati nel complesso promozionale-industriale che ogni anno srotola tappeti rossi per un numero sempre maggiore di «awards» proponibili come dirette televisive e quindi, assieme agli eventi sportivi, fra gli ultimi contenuti in grado di aggregare il pubblico «generalista» pregiato dagli sponsor.
In questo dispositivo, è il fattore meno essenziale è quello umano.
Per esempio le giurie. Quella dei Globes – anche se ben pagata – ha avuto un brusco risveglio la scorsa settimana quando una circolare aziendale ha informato i membri che il prossimo 7 gennaio non saranno invitati alla cerimonia.
Come riportato dal sito The Wrap, i membri, indignati per la perdita di un privilegio che per 80 anni è stato insindacabile, avrebbero tentato la rivolta in extremis. Scordando forse che il loro contratto specifica che ora possono essere licenziati per inadempienza, hanno minacciato a loro volta di boicottare il voto. Chissà che per future edizioni, per evitare noie, non si passi direttamente ad una giura ad intelligenza artificiale.
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