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«Hollywood Gate», i talebani visti da vicino

«Hollywood Gate», i talebani visti da vicino

Venezia 80 Fuori concorso presentato il documentario di Ibrahim Nash'at

Pubblicato circa un anno faEdizione del 2 settembre 2023

È un accesso ai Talebani straordinariamente intimo e privilegiato, ma revocabile e costantemente negoziato sul campo quello dell’autore di Hollywood Gate. Il documentario di Ibrahim Nash’at presentato alla mostra del Cinema di Venezia giovedi 31 agosto, in occasione del secondo anniversario dal ritiro dell’ultimo soldato statunitense dall’Afghanistan. Proprio in questi giorni, a Kabul i Talebani celebrano il consolidamento del loro potere, intensificano l’apartheid di genere e firmano accordi milionari con imprese e governi stranieri per l’estrazione di minerali preziosi. A Washington, invece, ancora si litiga sul disastroso ritiro dall’Afghanistan.

Nel film tutto ciò che viene prima della caduta della Repubblica islamica e dell’ingresso dei Talebani all’Arg, il palazzo presidenziale lasciato in fretta e furia il 15 agosto 2021 dal tecnocrate Ashraf Ghani, non si vede. Ma passa in filigrana, come sedimentato, nelle parole e negli atteggiamenti dei Talebani. I quali ricordano con un misto di nostalgia e orgoglio le notti trascorse nelle grotte, al riparo dai temibili cacciabombardieri degli americani, dai loro aeroplani, dalla loro tecnologia di controllo, spionaggio e morte. Macchinari ora utili a proteggere le istituzioni dell’Emirato e a reprimere ogni forma di opposizione interna, come mostra una scena del film: il regista viene fatto scendere dal pickup militare, prima di un raid notturno. Rimane al buio, alle porte di un villaggio di campagna. In lontananza, l’eco degli spari, ripetuti.

Se rappresaglie e vendette sono conosciute anche al grande pubblico, perlopiù sconosciuta è invece la vita quotidiana dei Talebani, l’ordinaria amministrazione dei militanti abituati per anni alla guerriglia clandestina e oggi alle prese con un passaggio cruciale per il loro movimento: la transizione dal jihad sui campi di battaglia ai ministeri e alle carte bollate.

Obiettivo del regista, spiega lui stesso all’inizio del film, è proprio quello di dare conto di questo passaggio storico, «da movimento di guerriglia a regime militare». Lo fa seguendo per circa un anno due funzionari dell’Emirato, uno dei quali, Aman, di alto grado e responsabile dell’aviazione, l’altro, Mukhtar, narciso e in attesa di scalare i vertici del movimento.

La vicinanza a protagonisti e ambienti della camera, usata in modo immersivo e tenuta accesa fino all’alt del mujahedin di turno, con un microfono che registra conversazioni private, rivelatrici di un intero mondo sociale e morale, priva i Talebani dell’aura misteriosa, mostruosa e paradossalmente sacrale che tanta pubblicistica giornalistica ha costruito intorno alla loro clandestinità. I due protagonisti di Hollywood Gate, alle prese con salari da pagare, pezzi di ricambio da trovare, ordini impartiti a gran voce ma non rispettati, ex piloti da convincere che valga la pena mettersi al servizio dei nuovi padroni del Paese, risultano per quel che sono: uomini simili a tanti altri, in cerca di riconoscimento, che rivendicano vittoria e giustificano la morte inflitta agli altri con quella subita dai propri cari. Ostili con chi ritengono un nemico, sono sospettosi verso il «cameraman» (così lo chiamano) che hanno di fronte.

Il regista è un sospettato. Come tutti coloro che non fanno parte del movimento, che non sono interni. Prevale la logica militarista dell’amico/nemico, il sospetto verso infiltrati e «agenti della propaganda di qualche intelligence straniera». Nash’at è un«figlio di asino», un «ebreo», «se si comporta male, campa poco». «Cosa vuole da noi?», «perché ci riprende?», si chiedono. Perché, come e cosa riprendere è anche la domanda che si pone il regista, all’inizio e in conclusione del film, dove si interroga in modo esplicito sui vincoli del documentare in modo embedded.

La guerra afghana ha prodotto tanti documentari e servizi giornalistici embedded. Quasi esclusivamente con le truppe straniere, specie americane. Più raramente con i soldati governativi afghani. Quasi mai con i Talebani. I prodotti realizzati sono propaganda, consapevole o meno. Anche qui le riprese sono embedded: l’autore dipende dai Talebani. Ma la presenza prolungata, l’immersione nella vita ordinaria, le scelte di montaggio su un girato che immaginiamo molto corposo, consentono al regista di guadagnare un margine sufficiente di autonomia per restituire un ritratto ampio e non scontato della vita quotidiana di ex combattenti armati ora alle prese con la gestione del potere.

Rimane il limite di fondo di ogni forma di giornalismo o cinema embedded, al seguito di chi imbraccia le armi, che abbia o meno un’uniforme. Il rischio di leggere un intero Paese, un complicato passaggio politico e sociale, solo attraverso la lente militare.

Quella dispiegata in pieno in una delle ultime scene del film. Siamo a Bagram, la base militare che per venti anni è stata il cuore della macchina da guerra americana, luogo di carceri segrete e di torture documentate.
È qui che nell’agosto 2022 il regista riprende la grande esibizione di forza con cui i Talebani festeggiano il primo anno di Emirato. Mullah Yaqub, figlio del fondatore dei Talebani mullah Omar e oggi ministro di fatto della Difesa, in piedi su una jeep saluta e omaggia il primo ministro, mullah Akhund. Sfilano mezzi e reparti militari, incluso quello degli attentatori suicidi.

Poi Aman, uno dei protagonisti del film, dà l’ordine via radio: davanti al palco, volano bassi gli elicotteri, a più riprese. Per lui, l’orgoglio di aver svolto bene il suo lavoro, rimettendo in sesto l’aviazione, in un anno. Per l’Emirato una prova di forza: conquistato il potere sul terreno di battaglia, ora i Talebani controllano anche il cielo. Alla parata assistono anche i funzionari delle ambasciate della regione. Lunga vita all’Emirato, si sente esclamare in lontananza.

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