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Helen Frankenthaler, l’ambiguità del color field

Helen Frankenthaler, l’ambiguità del color fieldHelen Frankenthaler nel suo atelier newyorkese, 1974

A Firenze, Palazzo Strozzi Fra gli espressionisti astratti, Helen Frankenthaler fu sensibilissima al colore come alone e spazio: dunque più vicina a Rothko che al ruvido Pollock

Pubblicato circa 7 ore faEdizione del 13 ottobre 2024

Clement Greenberg, tra i maggiori critici dell’espressionismo astratto insieme a Harold Rosenberg, pubblicò il suo articolo «American-Type» Painting sulla «Partisan Review» nel 1955: fu la prima volta che Clem, come usavano chiamare il critico americano gli amici della sua cerchia, teorizzò quell’approccio estetico già condiviso e praticato da una manciata di espressionisti astratti che sarebbe poi divenuto noto come color field. Pittori come Clyfford Still, Barnett Newman, Mark Rothko, notava Greenberg, stavano declinando, attraverso il loro dipingere, un nuovo tipo di linguaggio formale basato esclusivamente su aree di colore piatte, a basso contrasto, che sembravano pulsare e respirare, e in cui erano pressoché bandite linee di contorno.

In quell’articolo non si faceva alcuna menzione di Helen Frankenthaler, pittrice newyorkese che di quello stile divenne invece tra i massimi decani, e che pure aveva condiviso con Clem una parentesi romantica. A chi ne voglia sapere di più, è consigliato visitare la mostra in corso a Palazzo Strozzi, Firenze, fino al 26 gennaio (catalogo Marsilio Arte): Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, curata da Douglas Dreishpoon (direttore del catalogo ragionato dell’opera), sotto l’egida della Helen Frankenthaler Foundation. Complemento d’obbligo sono anche la biografia di Frankenthaler scritta da John Elderfield, per l’occasione ampliata e ripubblicata da Gagosian, e, nella sede romana della galleria, fino al 23 novembre, la mostra sulle grandi opere su carta realizzate dall’artista negli ultimi decenni della sua vita.

Partita intorno al 1950 da un espressionismo astratto incline alle divagazioni biomorfiche, e apparentemente debitrice delle vie formali di Arshile Gorky e del primo De Kooning astratto, ben presto la Frankenthaler arriva a cercare nei suoi dipinti una costante espansione delle aree di colore, sempre più vibranti e pulsanti, a discapito del vigore degli elementi lineari, che appaiono costantemente rarefarsi, depauperati della loro forza e incisività. Mountains and Sea, del 1952, è considerato il suo salto definitivo verso il futuro e non ancora teorizzato color field, opera ammiratissima dallo stesso Greenberg, e prepotentemente influente sulla ricerca di altri pittori – Morris Louis e Kenneth Noland vennero folgorati dalla novità del dipinto, quando furono invitati a casa della Frankenthaler per vederlo.

«Mornings» (Mattine), 1971, New York, Helen Frankenthaler Foundation

Quel passaggio fu per la pittrice indispensabile per trovare un suo modo di distanziarsi dall’action painting più lineare e ruvida di Pollock (di cui un black painting bello e severo è esposto in mostra), e tendersi piuttosto verso quella sensibilità a un colore caldo e ovattato, diffuso per aree scontornate, ben espressa nell’inaction painting – come la definiva Palma Bucarelli – dell’adorato Rothko. Per fare questo, la Frankenthaler mise a punto una tecnica tutta sua detta soak-stain, che potremmo tradurre «imbibizione a macchia», per cui veniva utilizzato un colore acrilico estremamente diluito per impregnare le fibre della tela grezza, o della carta lavorata a mano e utilizzata negli ultimi decenni, e costruire così lo spazio attraverso un espandersi cromatico per aloni e sovrapposizioni – il colore veniva colato, versato, talora spanso con ampi movimenti di spugna –, scevro sia dalle durezze incrostate della materia, sia dai riflessi tipici della pittura a olio, e più simile, per certi versi, alla resa dell’acquerello.

Un nugolo di personaggi primari e comprimari popolò il mondo della Frankenthaler, e la struttura della mostrconcede diverso spazio alle opere di sodali e artisti a lei coevi, e non per il mero gusto fine a se stesso di ricostruire il contesto della comunità artistica newyorkese in cui visse la pittrice, ma per illustrare quella stretta rete di reciproci crediti e debiti formali, e intellettuali, tessuta tra lei e i suoi colleghi, quasi sempre anche suoi amici e compagni di vita, tra cui Noland, Louis, Pollock, Rothko, Robert Motherwell (marito della Frankenthaler tra 1958 e il 1971), David Smith, Anne Truitt e Anthony Caro.

I lavori esposti di questi ultimi tre – scultori – aiutano poi a leggere correttamente le sculture realizzate saltuariamente dalla pittrice – epica la sessione di lavoro svolta nello studio londinese di Caro nel 1972 –, quasi a voler ritrovare quella riflessione sulla tridimensionalità che nel suo modo di fare pittura era volutamente esclusa, o quantomeno minimizzata.

Passando in rassegna i monumentali dipinti della Frankenthaler, si resta sedotti dalla molteplicità di modi con cui l’artista riesce nel tempo a coniugare le sue soak-stains, di volta in volta più decise o evanescenti, isolate o diluite le une nelle altre, a volte sorprendentemente emergenti dal fondo facendosi strada a discapito di altre. E si avverte come il rifiuto del lineare, del segnico, del geometrico, sia in realtà un costante pensiero per la pittrice, che talora pare evocarne l’anima in alcuni dipinti, in un modo forse provocatorio e ironico, e come elemento sempre accessorio e mai fondamentale alla costruzione dello spazio. Ben più forte seduce la malia dell’ambiguità, che si avverte covare dentro e dietro la visione degli spazi immaginati dalla Frankenthaler: pure nella loro astrattezza, questi lasciano spesso sospettare che il punto di partenza sia un brano di realtà, di natura, ancorché trasmutato in un risultato di struggente lirismo attraverso il passaggio nella coscienza e nella memoria, e nel corpo, dell’artista.

Si è dunque tentati di immaginare un orizzonte notturno e preaurorale originare Driving East (2002), o una fumosa metropoli ritmata di luci alla base di Star Gazing (1989), o, ancora, ricordi di paesaggi vissuti, nella predominanza azzurra di Ocean Drive West #1 (1974) o in quella gialla e arida di Southern Exposure (2001). Viene in mente Nicolas De Staël, altro grande pittore che, proprio negli anni in cui la Frankenthaler iniziava a esplorare la pittura dei campi di colore, in Europa percorreva strade simili, tentando struggenti riduzioni del visibile in fazzoletti di colore, più saturi e meno pulsanti di quelli della Frankenthaler, più aderenti al dato ottico della luce e meno interiorizzati, ma inconsapevoli figli degli stessi padri, a cominciare da Cézanne e da Matisse: il primo era arrivato a tradurre le modulazioni luminose del visto in una brulicante fantasmagoria di taches tonali, quasi prefigurando in alcuni passaggi la lingua astratta, mentre il secondo – il cui Ananas ispirò a Frankenthaler la scultura Matisse Table (1972) – aveva già occultato, nei larghi e piatti sfondi di certi suoi quadri fauve – la superficie di un tavolo, di una parete, di un pavimento –, quella calda e misteriosa vibratilità del colore recuperata e animata con sicurezza nelle opere della pittrice newyorchese.

«Giocare con l’ambiguità, quando ci riesci, è parte del magico je ne sais quoi che fa funzionare qualsiasi quadro e trasmette un messaggio», rivelava la Frankenthaler in un’intervista, e a ben vedere sembra infine proprio l’ambiguità uno dei temi più riflettuti dall’artista (un suo dipinto, Seven Types of Ambiguity, fu ispirato da un celebre saggio di William Empson sull’ambiguità nella letteratura). Ambiguità della pittura, innanzitutto, e dunque ambiguità della rappresentazione: «Una linea è una linea, ma è un colore (…) la superficie della tela è piatta, e tuttavia lo spazio sembra estendersi per miglia. Che bugia, che inganno – quanto è bella l’idea stessa della pittura», scriveva lei in una pagina del diario, nel 1950.

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