«Abiti qui? No? Allora allontanati. Questa è area militare chiusa, non può passare nessuno, solo soldati, poliziotti e chi ci abita». Inutile mostrare la press card, inconcludente provare a spiegare che la stampa ha il diritto di svolgere il suo lavoro. Niente da fare. Nella zona H2 di Hebron i militari israeliani non ci lasciano entrare.

SOLDATI e poliziotti di guardia al posto di blocco tra la casbah e la Tomba dei Patriarchi non ascoltano ragioni. Ci concedono, solo per pochi minuti, di dare un’occhiata lì davanti. La zona H2 è una città fantasma, persino più che negli ultimi 23 anni, da quando all’inizio della seconda Intifada via Shuhada, un tempo arteria commerciale di Hebron, fu blindata. Da allora centinaia di negozianti palestinesi non hanno più riaperto. Intravediamo solo qualche colono israeliano.

Avremmo voluto passare a salutare Munir, uno dei pochi commercianti che ha resistito alle tempeste che travolgono periodicamente questa antica e sfortunata città e ha tenuto il negozio aperto nella zona H2. Arriva implacabile il richiamo a tornare subito indietro da dove siamo venuti. Inutile tentare l’ingresso dall’altro checkpoint, da dove si sale verso Tel Rumeida. È chiuso ermeticamente per chi non abita in quella zona, ci avvertono i militari.

È QUASI VUOTA anche la casbah che anche nei tempi più bui, con i suoi negozietti di stoffe, souvenir, prodotti locali e dolci offre un’idea di ciò che era un tempo, movimentata e piena di vita. Su di essa gravano a due-tre metri di altezza reti colme di rifiuti. A lanciarli giù in basso, spiegano gli abitanti palestinesi, sono i bambini dei coloni che vivono negli edifici che affacciano sui vicoli della città vecchia.

L’unico accordo che il premier israeliano Benyamin Netanyahu abbia mai firmato con i palestinesi riguarda proprio Hebron. Lo raggiunse con il leader dell’Olp Yasser Arafat nel 1997. Quell’intesa è considerata dai palestinesi la più penalizzante, per i coloni israeliani giunti dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 è invece una vittoria.

La città fu divisa in due sezioni: H1 sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e H2, dove risiedono centinaia di coloni e oltre 20mila palestinesi, è sotto il controllo israeliano. Nella H2 se non sei un israeliano la vita è davvero complicata e in via Shuhada, anche in periodi tranquilli, è raro incontrare residenti palestinesi, molti per andare al lavoro nella parte H1 ogni giorno devono attraversare posti di blocco militari e affrontare controlli meticolosi.

FACCIAMO qualche domanda a un commerciante della città vecchia, Abu Abed. È nato nella casbah e ha sempre abitato lì, dice di averne viste di tutti i colori. «È dura per tutti a Hebron e non da oggi, però in questi giorni mi considero fortunato – ci dice seduto accanto a un banco di saponi e creme – Quelli che vivono dall’altra parte (la zona H2) sono come dei prigionieri. La loro vita era già difficile, ora è terribile».

Si riferisce alle decisioni prese dalle autorità israeliane dopo il 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas nel sud di Israele che ha ucciso circa 1.200 israeliani tra civili e militari e preso in ostaggio oltre 200 persone. Nonostante gli abitanti palestinesi nella H2 di Hebron non avessero alcuna responsabilità nell’attacco del movimento islamico, l’esercito li ha messi sotto coprifuoco. 750 famiglie di fatto sono rinchiuse nelle loro case.

«Per giorni migliaia di persone, tra cui tanti bambini, non hanno potuto mettere il naso fuori casa mentre i coloni israeliani potevano muoversi come meglio credevano – ci racconta un attivista di Hebron, M.F. – Poi il 21 ottobre i militari hanno finalmente permesso ai residenti di uscire di casa. La domenica, il martedì e il giovedì, per un’ora al mattino e un’ora alla sera. In quelle due ore devono affrettarsi ad andare al lavoro e procurarsi il cibo e solo in quelle ore possono rientrare a casa. Per questo tanti hanno deciso di restare gran parte del tempo nella parte sotto il controllo dell’Anp. La considero una forma di sfollamento».

Un altro abitante in H2, che incontriamo in H1, ci dice che «attraversare i posti di blocco può prevedere perquisizioni corporali umilianti e lunghe attese» e di conseguenza non sempre si riesce a tornare in tempo al checkpoint, così si resta fuori un giorno o una notte intera finché non riapre».

SI VIVE nell’incertezza, aggiunge, senza sapere quando finiranno queste «restrizioni insopportabili». «Ci sentiamo prigionieri a cui viene data ogni tanto un’ora d’aria e delle volte subiamo minacce solo perché ci affacciamo dai balconi e dalle finestre. Persino ricevere a casa parenti e amici è diventato difficile».

Una donna ha raccontato alla ong a difesa dei diritti umani B’Tselem che, giunta a un checkpoint tre minuti prima della chiusura, ha detto a un agente di polizia che il figlio e il marito sarebbero arrivati un po’ in ritardo: «Gli ho chiesto di lasciarli passare ma mentre parlavo con lui gli altri poliziotti hanno chiuso il posto di blocco. Un’altra volta era giovedì e sono rimasta fuori fino aa domenica perché il checkpoint è chiuso venerdì e sabato. Per fortuna sono stata ospitata da mia figlia (nella H1)».

L’esercito israeliano afferma che «le forze armate operano in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) con l’unico fine di garantire la sicurezza a tutti i residenti. Di conseguenza, posti di blocco e monitoraggio dei movimenti sono stati istituiti in diverse aree del settore, così come a Hebron».

Non può ospitare nessuno anche Issa Amro, noto attivista palestinese della lotta non violenta, premiato per il suo impegno in vari paesi. Ha dovuto addirittura lasciare la sua casa nella zona controllata da Israele. «I soldati – ci dice – mi hanno accusato di aver ricevuto a casa una persona non residente a Hebron, mi hanno intimato di fare subito le valigie e andare nella H1 per tutta la durata della guerra. La persona di cui parlavano era un giornalista israeliano venuto a intervistarmi». Il 7 ottobre, Amro ha detto di essere stato arrestato senza alcuna accusa e detenuto per 10 ore, con le mani legate e la bocca imbavagliata. «Mi hanno insultato e aggredito e ho notato che alcuni coloni israeliani che conosco indossavano uniformi dell’esercito».

LASCIANDO Hebron, sullo stradone principale, poco prima dello stadio, decine di tassisti ieri mostravano cartelli con l’immagine di Issa Al Qadi, il loro collega di 66 anni ucciso all’alba di lunedì durante un raid dell’esercito israeliano nella sede di una associazione nel quartiere di al-Haouz, nella zona H1. Colpito alla testa da un proiettile mentre transitava con la sua auto in quella strada, è morto sul colpo.