Harry’s Bar, la leggenda
Bar Venezia, il Bellini, prosecco e polpa schiacciata: ma in principio c’erano il gin, il whisky, il rum, il cognac, quattro cose che non si sarebbero mai dovute mescolare tra loro...
Bar Venezia, il Bellini, prosecco e polpa schiacciata: ma in principio c’erano il gin, il whisky, il rum, il cognac, quattro cose che non si sarebbero mai dovute mescolare tra loro...
In principio era Gordon’s, il superalcolico che allungato con gazzosa e ghiaccio chiamavamo gin fizz. Ci simboleggiava, intorno ai tavolini dei bar, le estati in città. L’offerta constava di tre quattro bottiglie appena, con etichette differenti, sparse sulle mensole dei locali. Non mancava mai Gordon’s, il principe dei gin che esalta l’essenza di ginepro. Annusandolo, perfino un astemio saprebbe che è gin. Ma in tempi di gin-mania, favorita dalla composita produzione di gin artigianali, pure il bevitore consumato resta perplesso nel riconoscere un distillato etichettato come gin. Il gin fizz è variato in gin tonic: alla gazzosa, desueta, si preferisce acqua tonica.
Nelle torride estati a Venezia lo sorseggiavamo, sovraccarico di ghiaccio, durante le mostre di Biennale-Architettura visitate con regolarità fin dalla prima, sul Postmodern alle Corderie dell’Arsenale nel 1980, curata da Paolo Portoghesi.
Per nessuna ragione due nostre amiche della città lagunare, andando per bar, rinunciavano allo spritz di origine veneziana a base di Select, vino bianco e seltz. Più ghiaccio ovviamente.
Dandoci appuntamento, nella loro pausa dall’ufficio in zona San Moisè, non tornavamo nel bar della volta precedente: la scelta era sempre diversa. Alla lunga il giro dei bar fu completato. Ne restava uno per la verità, dove non eravamo mai entrati. Si scendeva da Frezzeria verso Bocca di piazza e proseguivamo per calle Vallaresso in fondo alla quale, sbucando nel bacino con veduta di Punta della dogana e delle isole di San Giorgio e della Giudecca, c’era e c’è l’Harry’s Bar. Chiunque se lo ritrova dinanzi non appena viene scaricato dal vaporetto che attracca al pontile di San Marco, ma nessuno ci entra: l’esterno spoglio e anonimo, privo pure di insegna, fa sì che le ondate giornaliere di turisti nemmeno si accorgano del fabbricato ad angolo adibito a locale pubblico; residenti e pendolari, che ne sono consapevoli, badano a starsene alla larga. Per entrarci, avvertivano le due signore veneziane, urgeva accendere un mutuo. Termine allergico alle nostre orecchie che per esorcizzarlo invogliò a introdurci nell’Harry’s spingendo le ante della porta a molla.
L’interno non smentiva le apparenze, anzi le confermava tutte: sala angusta, soffitto basso, tavolini ammassati, sgabelli alti davanti al bancone posizionato a due passi dall’entrata. Insomma, un qualsiasi bar in stile Novecento.
Le lancette dell’orologio da parete segnavano le cinque di pomeriggio e, sarà stata l’ora, la sala era quasi vuota, di personale e di avventori. Ci avventurammo sugli sgabelli alti, lasciati tutti liberi. L’essere giovani, ma non spericolati, non bastava a farci rimanere stabilizzati su sedute scricchiolanti, per cui tenevamo incastrate le scarpe fra il bancone e l’ottone della barra in basso. Sorvolando sugli abituali gin fizz e spritz, ci concedemmo la tipicità della casa: la prima volta all’Harry’s Bar non poteva non coincidere con il Bellini, aperitivo di prosecco e polpa schiacciata di pesca bianca, oggi commercializzato in paesi di mezzo mondo. Sperimentatore del drink, e fondatore dell’Harry’s nel 1931, Giuseppe Cipriani.
Dagli sgabelli alti beneficiavamo di un’inaspettata visione d’insieme. Centellinando da lassù il bicchiere a flute del Bellini, ci accorgemmo che l’arredo essenziale, e usuale, dell’interno trasmetteva familiarità e sollievo pur continuando a stare aggrappati al solido legno del banco. Sopra il quale, fra le consumazioni, si ergeva disinvoltamente l’ingombro della cassa, messa lì forse per ricordare qualche sciagurato con bicchieri di troppo di pagare il conto. Che pagammo, come da avvertimento, alquanto salato. (Benché Arrigo Cipriani sostenga che il salato, di gusto però, non è contemplato all’Harry’s).
Corse un cameriere per agevolarci l’uscita, spalancando con vigore le ante da saloon mentre un vento di mare le sospingeva all’incontrario. La semplicità, la naturalezza, i gesti comuni, anche gli accidenti del quotidiano, il tutto in un’atmosfera sempre attuale, hanno sancito la fortuna dell’Harry’s Bar elevandolo in quasi un secolo di vita a icona dell’intrattenimento. Elementare? Semplicità, naturalezza, hanno prezzo alto, sono eleganza pura. L’eleganza non si compra, non si lascia possedere da chicchessia. Appare democratica, potendosi intravedere nella persona umile; di certo è antidemocratica: chi ce l’ha e chi no.
Da quella prima volta all’Harry’s Bar traemmo spunto per un articolo che un’agenzia di stampa di Roma, cui inviavamo servizi giornalistici, rilanciò a delle testate del nord Italia. L’articolo, in Veneto, venne pubblicato dall’Arena, giornale di Verona e città d’origine dei Cipriani, Giuseppe e il figlio Arrigo. Quest’ultimo, per il sessantennio del locale nel 1991, scrisse il libro Il mio Harry’s Bar. Le ricette e la leggenda. Di cui conserviamo la copia speditaci. Il gin è diventato negli ultimi anni il distillato di maggior consumo, specie d’estate. Cipriani lo aveva già incluso fra i quattro superalcolici universali. «In principio c’erano il gin, il whisky, il rum, il cognac – si legge nel libro – e queste erano le quattro cose che non si sarebbero mai dovute mescolare tra loro. Poi c’erano il vermouth, i liquori dolci, lo zucchero e il limone, che sarebbero serviti per la gloria dei primi quattro componenti dell’universo».
Durante le periodiche «incursioni» all’Harry’s, magari senza consumazione, con l’Arrigo che non trovavamo mai perché puntualmente Oltreoceano, cominciammo a frequentare il Caffè Florian, locale agli antipodi dell’altro fin qui descritto per stile e tradizione. Con tre secoli di attività, sotto il porticato delle Procuratie nuove di piazza San Marco, il caffè della allora titolare Daniela Gaddo Vedaldi nei secondi anni ’80 aprì alla contaminazione dell’arte contemporanea. Una rottura con la sua storia e al contempo un ritorno al passato: era stato proprio il Florian, adornato di stucchi e marmi, a fungere da contenitore inaugurale per l’esposizione della prima Biennale d’arte nel 1895. Circa un secolo più tardi la signora Vedaldi concesse le sale-salotto del caffè a opere d’arte installative, rimovibili, su arredi (specchi, mobili, quadri), su pareti e soffitti. Una dozzina le edizioni della rassegna intitolata «Temporanea. Le realtà possibili del Caffè Florian».
Il nostro giornale prestava attenzione alle varie esperienze di arti visive che attualizzavano l’immagine, talvolta museificata, di luoghi d’antan. Daniela Vedaldi anziché del telefono o del fax comunicava con noi tramite carteggio: tratto distintivo di chi rappresentava un caffè come il Florian.
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