«Oggi, zuppa di verdura sul Seminatore di Van Gogh. Agiamo per amore della vita, dunque per amore dell’arte! In un futuro dove faticheremo a trovare da mangiare per tutti, come possiamo pensare che l’arte sarà ancora tutelata?». Dopo I Girasoli a Londra da parte di Just Stop Oil, I Covoni (Monet) a Potsdam in Germania per conto di Letzte Generation e La ragazza con l’orecchino di perla (Vermeer) a L’Aia, ancora per Jso, questa volta è toccato al dipinto esposto a Palazzo Bonaparte a Roma, scelto per l’azione dimostrativa da tre attiviste ambientaliste di «Ultima generazione» che hanno imbrattato il vetro con cui è protetta l’opera d’arte. La procura indaga e il ministro della Cultura Sangiuliano, corso sul posto, l’ha definita «azione ignobile» . Ma come dice il nome stesso dell’organizzazione che ha rivendicato via Twitter l’azione di ieri (sorella di quella tedesca), si tratta di movimenti ambientalisti di ultima generazione (anche se il nome si riferisce all’”ultima generazione umana”), che scelgono modalità di lotta molto diverse da quelle dei pionieri dell’ecologismo. Come Greenpeace, per esempio, che in Italia è presieduta da Ivan Novelli. Ne abbiamo parlato con lui.

«Voi oggi siete arrabbiati perché abbiamo sporcato un vetro che domani sarà pulito ma tra qualche anno i vostri figli non potranno più mangiare», ha detto una delle attiviste ieri. Cosa ne pensa? C’è molta differenza con le vostre iniziative…

Mi sembra che la scelta dell’obiettivo abbia fuorviato il dibattito. Il clima è arrivato in secondo ordine. E non è solo colpa di chi ne dà notizia. Noi abbiamo sempre individuato un target, un obiettivo preciso, nella maggior parte dei casi l’azienda inquinante o un soggetto politico decisore. Non che pensiamo di essere la bibbia delle azioni nonviolente, ma crediamo si debba individuare l’obiettivo in modo più chiaro altrimenti si rischia l’effetto boomerang.

Ad esempio bloccare il traffico?

Le nostre azioni sono molto meditate e valutiamo anche i rischi legali che esse comportano. È importante sapere che da diversi anni hanno fatto giurisprudenza alcune sentenze che hanno riconosciuto l’interesse collettivo in alcune azioni ambientaliste. Il reato non viene punito se l’interesse collettivo è superiore. Ma questo può succedere in casi tipo entrare in un’azienda individuata come target o arrampicarsi su una ciminiera… Invece fare un blocco stradale può mettere a rischio perfino la vita di una persona, nel caso per esempio di un ambulanza che subisce ritardo o che non riesce a passare. Ma anche senza pensare a eventi limite, il blocco stradale colpisce la vita delle persone un po’ inutilmente. Io capisco che non è facile inventarsi qualcosa di diverso, lo sappiamo bene noi, anche perché l’azione deve essere efficace anche per i media. La verità è che il tema del clima è sul tavolo da 35 anni ma il messaggio non viene raccolto mai dai decisori.

Quali differenze trova tra Greenpeace degli esordi e questi nuovi movimenti ambientalisti nonviolenti come Extintion Ribellion, Jso o Ultima generazione, che a differenza dei primi Friday for Future usano azioni di disturbo e non solo di resistenza passiva?

Noi abbiamo iniziato con una barca andando a ostacolare i test atomici. Abbiamo utilizzato sempre il nostro corpo ma mai coinvolgendo altre persone. I militanti di Greenpeace che compiono azioni, da sempre, fin dall’inizio, sono molto preparati sia dal punto di vista fisico che soprattutto psicologico, perché devi sapere come reagire – o meglio devi essere cosciente che non bisogna reagire – all’intervento delle forze dell’ordine.

Questi movimenti sposano una visione quasi millenarista, da fine del mondo, un po’ catastrofista. Siete d’accordo?

Noi facciamo azioni sulla base di studi scientifici e la scienza ci sta dicendo che il tempo per rimediare all’impatto dell’uomo sull’ambiente è sempre meno. Certo, non è la fine del mondo perché la scienza, che bisogna saper leggere, non dice questo. La nostra campagna sul clima nasce alla fine degli anni Ottanta, in parallelo a quel gruppo di scienziati dell’Onu che poi si sono costituiti all’Ipcc nell’88, e nel 1990 insieme con loro lanciammo un allarme forte tramite un rapporto. Ci sono delle urgenze che sono sempre più scottanti, perché la politica e buona parte del mondo industriale non ha raccolto questi messaggi. La direzione intrapresa ci sta portando in un burrone, ma bisogna riuscire ad agire sui decisori politici.