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Gli Stati uniti nel magma del populismo

Gli Stati uniti nel magma del populismoUn sostenitore di Trump esulta nella notte elettorale – Reuters - LaPresse

I grandi mezzi di comunicazione, da noi e Oltreoceano, fanno sempre due parti in commedia. Prima delle elezioni rappresentano il conflitto come una polarizzazione tra civiltà democratica e barbarie. Subito […]

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 16 novembre 2016

I grandi mezzi di comunicazione, da noi e Oltreoceano, fanno sempre due parti in commedia. Prima delle elezioni rappresentano il conflitto come una polarizzazione tra civiltà democratica e barbarie. Subito dopo, si lamentano di non aver compreso il mondo, attribuiscono interamente alle classi popolari gli esiti di un processo complesso e stratificato, e le pongono al centro di analisi da cui le avevano completamente escluse.

Se la politica cambia, è per merito o per colpa delle classi popolari. Così, indirettamente, mezzi di comunicazione posseduti dal grande capitale finanziario (che partecipa in vari modi a tutti i più importanti mezzi di informazione del pianeta), approdano a una comprensione dei conflitti politici quasi-marxista: la contrapposizione di classe è il motore della storia. Un marxismo rovesciato, però. In questo caso, alle classi popolari viene attribuita sempre e solo la vittoria delle destre. Meglio se radicali, xenofobe e fasciste.

Si lanciano così due messaggi.

Uno: quando il popolo vota e agisce, produce questi effetti.

Due: solo la destra sa intercettare il popolo. La destra è abile, radicata, capisce gli umori collettivi, usa bene la Tv, è geniale con i social media.

Quando il voto popolare si presenta invece come determinante per l’ascesa di qualche sinistra – Sanders, Syriza, Podemos – il popolo torna a sparire dai radar. La clemenza mostrata dai media con i Trump, le Le Pen, i Salvini («dobbiamo capire il fenomeno»), torna a essere pura opposizione viscerale. Per il popolo e per i suoi rappresentanti.

Ma il voto popolare è stato determinante nella vittoria di Trump? No, questo al momento non può dirlo nessuno. Se vogliamo prendere per buoni gli unici dati che abbiamo, gli exit poll della Cnn, il quadro che emerge è completamente diverso da quello che domina i commenti post-voto. La vittoria di Trump è massima tra i ceti medio-alti. Tra chi ha un reddito inferiore ai 30.000 dollari, Clinton prende il 53% e Trump il 41. Nell’elettorato tra i 50 e i 100.000 dollari, Trump vince 50 a 46. Tra i ricchi (più di 100.000 dollari) sono quasi pari, ma vince Trump: 48 a 47.

La vittoria di Trump negli stati ex industriali del nord-est (la famosa Rust Belt), è un fatto importante. Ma non è sufficiente a considerare quello a Trump un «voto di classe», e la natura del voto in quegli stati va ancora indagata. Per ora sembra un voto più rurale e provinciale che operaio (cfr. Cartosio, il manifesto del 10/11).

Si prende per buona la definizione di Trump come figura anti-establishment. Trump è stato sicuramente un formidabile catalizzatore di sentimenti anti-partito e anti-classe politica. Su questi sentimenti le classi popolari possono benissimo proiettare un feroce odio di classe verso i privilegiati, Wall Street, le élite intellettuali.

Ma che rapporti ci sono tra Trump e le élite?

Le élite sono un insieme plurale e conflittuale di gruppi sociali. Possono essere in conflitto tra loro, e in ogni settore alcune componenti possono essere in conflitto con altre.

Che rapporti ci sono tra l’imprenditore Trump e le imprese dei settori tradizionali? Dando per scontato che il mondo Clinton-Obama è il rappresentante politico della digital economy (Twitter, Facebook, Amazon, eccetera), esiste qualche relazione di Trump con il mondo dell’immobiliare, delle infrastrutture, dell’energia, dell’industria pesante, del settore militare-industriale? E con pezzi di Stato e di sistema politico? L’Fbi ha sostenuto quasi apertamente Trump. Che fine hanno fatto gli antichi, e silenziosi, neo-con? Uno di loro, Stephen Bannon, è entrato nello staff di Trump.

E la reazione delle Borse dice che Wall Street non è affatto spaventata da Trump. Era Sanders a spaventarla. Clinton e Trump, più o meno, pari sono.

In Usa, in Europa e altrove, è in corso una rivolta del popolo contro le élite, ma anche una poderosa rivolta dell’élite contro il popolo. I due processi devono essere sempre guardati insieme. Nel Settecento e nell’Ottocento, la borghesia in ascesa utilizzava il popolo per affermarsi contro le classi tradizionali.

Una volta vinto questo conflitto, si concentrava a reprimere il popolo politicamente organizzato. Le élite contemporanee stanno facendo la stessa cosa, in questa fase di strisciante rivolta elettorale populistico-democratica che ridisegnerà interamente forme della politica e istituzioni.

Il popolo e il populismo vengono usati dall’élite per ridisegnare le istituzioni in senso a-democratico. Per fare questo, possono anche servirsi del nazionalismo, del razzismo e dell’autoritarismo di figure come Trump.

Per questo il popolo è posto al centro della scena. La nuova configurazione delle istituzioni politiche deve essere legittimata: la vuole il popolo. Ma questo popolo è al contempo responsabile dell’ascesa dei barbari. È ignorante, incivile, pericoloso. Una volta compiuta l’operazione, si può tranquillamente ricominciare a escluderlo e colpirlo, con le élite di nuovo felicemente compatte.

Nello stesso tempo, però, si è creata una dinamica conflittuale e contraddittoria, dagli esiti imprevedibili e non per forza reazionari. Non è più possibile fare politica al di fuori di questo magma.

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